Non è nuovo Ron Howard alla messa in scena di storici duelli. Lo avevamo lasciato alle prese con i meccanismi della rappresentazione mistificata del potere, impegnato a sondare il collasso tra le luci della ribalta e le ombre dell'intimità nell'
enfatico confronto tra il dimissionario presidente Nixon e il telegenico
anchorman David Frost. Ora, con "Rush", il più americano dei registi sembra voler inseguire le tracce di un'altra storica rivalità, quella che vide contrapposti i piloti Niki Lauda e James Hunt nel tragico (ed epico) mondiale di Formula 1 del 1976. L'ideale seguito, si potrebbe pensare, di un parabola (troppo) umana, il secondo atto di una inesorabile
comédie humaine avvitata sulla divergenza del sé, nell'epoca dell'esposizione massmediatica, del corpo fatto immagine e trasfigurato in icona. O ancora (perché no?) un nuovo capitolo dell'
American dream (la caduta e la rinascita dell'eroe, il mito del
self-made man), saldato da un emblematico
fil rouge alla retorica sontuosa del precedente "Cinderella Man", lacrimevole manifesto di un cinema tanto meticoloso nella ricostruzione del dettaglio storiografico, quanto consapevolmente ricattatorio nel destituire di umanità i suoi personaggi, sino a farne deboli strumenti di una sterile propaganda idealista. Scenari, questi, che il piglio autoriale di Howard, così saldamente ancorato alla tradizione del melodramma hollywoodiano, rendeva entrambi plausibili; per questo la sorpresa, in sala, è stata ancor maggiore.
"Rush" è, in realtà, un oggetto strano, un ibrido difficilmente collocabile nella filmografia del regista, un film paradossalmente centripeto, a dispetto del dinamico e dispersivo montaggio, che si avvita su se stesso e, come i suoi personaggi, si lancia in una strenua corsa a perdifiato sino al fondo di un vicolo cieco. Non è tanto l'ineluttabilità che ogni storia vera porta con sé a determinare il ripiegamento in sé di una narrazione che procede per accumulo, che sovrappone continui scarti temporali senza allontanarsi dal proprio epicentro, quanto la sua capacità di modellarsi sul carattere dei protagonisti, entrambi costretti a convivere con un'ossessione che li consuma e impedisce qualsiasi deviazione al loro percorso esistenziale, a meno di serie conseguenze.
Lauda è arrogante, metodico e calcolatore, al punto da valutare in percentuale il rischio tollerato durante una gara, ma quando, nel fervore della corsa, cercherà di recuperare lo svantaggio, spingendo la sua Ferrari oltre il consentito, l'esito sarà il terribile
incidente al Nürburgring, che lo lascerà sfigurato; dal canto suo Hunt è uno sfrontato seduttore con tendenze libertine, avventato al punto da osare senza rimorsi manovre al limite del possibile, ma, al momento di affrontare la prova decisiva sotto una pioggia torrenziale, si troverà a esitare, memore di quanto accaduto a Lauda, mettendo a rischio il titolo mondiale.
A dispetto della maturazione simbiotica, che spingeva un arrendevole Nixon a spogliarsi della propria superiorità dialettica e, parallelamente, uno smarrito Frost a rinnegare la pochezza di un approccio strumentale alla realtà, Lauda e Hunt non possono che consumarsi nel guscio coriaceo dell'ostinazione. E l'incontro finale all'aeroporto ci consegna l'immagine di due uomini confortati dall'inerzia delle proprie scelte (si veda il confronto sul circuito del Fuji) e arresi all'ebbrezza di quelle stesse ossessioni che il montaggio ipercinetico delle sequenze in pista consegna al nostro immaginario di spettatori, intrappolati anche noi, con i piloti, nel vortice di uno spazio che si moltiplica e ricompone in una percezione sempre incerta, opalescente.
È in questi momenti che la regia di Ron Howard dà vita a un'incredibile avventura dello sguardo, dilatato in un profluvio di soggettive allucinate (dal casco dei piloti, dal tettuccio delle auto, da sotto il tettuccio, dai tubi di scappamento, dal telaio, dalle sospensioni, dagli alettoni), che disperdono i punti di vista nella prospettiva integrata del corpo-macchina, quando le lamiere incandescenti si fanno ideale prolungamento della fisicità del pilota.
Non siamo, però, dalle parti del Frankenheimer di "Grand Prix", come, pure, potrebbe sembrare. Là era l'amore per le corse, a emergere, il ritratto di una passione vissuta dall'esterno; ben oltre si spinge Howard, che ha, del resto, confessato un totale disinteresse per l'automobilismo. La chiave del film è altrove, al punto da affidare le questioni più tecniche e il contorno della vita parallela nei box a poche, ellittiche sequenze. Partendo dalla rivalità insistita tra i due grandi piloti, il regista inoltra il proprio sguardo nelle pieghe dell'umano, oltre le cicatrici del corpo, al fine di sondare le radici dell'ossessione e raggiungere l'impervio confine tra caparbietà e fanatismo.
Significativo, poi, che nel contrasto tra la pubblica apoteosi dell'eroe e la deriva problematica di un'esistenza sacrificata all'esposizione mediatica, i momenti di più sincera umanità siano a margine dell'esibizione sociale, nei conati che squassano il corpo di Hunt prima di ogni gara, nel suo maneggiare nervoso l'accendino durante la conferenza stampa, più che nell'intimità della vita domestica, fin troppo da copione per generare vera empatia. E si vede la profonda differenza con l'assunto di Frost/Nixon, adagiato nel più consueto contrasto tra immagine pubblica e vita privata.
Sorretto dall'enfatica musica della
factory di Hans Zimmer, che spalma melodie in ostinato su un tappeto di sonorità telluriche, il solido mestiere di Ron Howard si dimostra capace di catapultare le viscere dello spettatore nel
pathos di una narrazione tesa e coinvolgente, già abilmente sceneggiata dalla Storia, col piccolo contributo di Peter Morgan ai dialoghi e le interpretazioni di due attori camaleontici (con particolare menzione per Brühl, capace di restituire la personalità di Lauda fino alle inflessioni dell'accento) a chiudere il sontuoso progetto. Rimarrebbe da capire per quali strani giochi del destino Lauda riesca a incontrare nei pressi di Trento due tifosi italiani appena capaci di biascicare un confuso dialetto meridionale, ma dallo scorrevole accento inglese. Misteri di Hollywood, ma poco importa.
Con nostra grande sorpresa Ron Howard ha costruito il miglior film sulla Formula 1 e non è peregrino supporre che ciò sia dovuto al fatto che la Formula 1 vi entra in modo molto marginale, se non come moderna giostra di scontri dal sapore cavalleresco; un'arena capace di restituire ai suoi gladiatori la vertigine necessaria per tacitare la loro inesausta ambizione di oltrepassare i propri limiti. Quel che infine rimane è l'emozione di una sfida senza tempo.
Per saperne di più:
R. Howard, D. Bruhl, C. Hemsworth, P. Favino - Speciale Rush20/09/2013