Da ormai alcuni anni il dibattito degli studiosi del cinema si sta soffermando sempre di più ad analizzare il posto della Settima arte all'interno di un contesto audiovisivo che Eugeni
1 definisce postmediale. Nel mondo alla fine dei media, almeno nella loro accezione otto-novecentesca, viviamo un progressivo e inarrestabile processo di naturalizzazione della tecnologia che amplifica esponenzialmente l'impatto e la soggettivazione delle esperienze calandoci in uno sconfinato ipertesto di stimoli sensoriali. Ma se tutto è sguardo, tutto è Cinema?
Nel solco aperto da questa domanda si sono incuneate due opere interamente girate in
found footage come "
Hardcore!" nel 2014 e, finalmente, questo italianissimo "Ride", opera prima di Jacopo Rondinelli coadiuvato dalla sceneggiatura e dalla supervisione tecnica di Fabio Resinaro e Fabio Guaglione, precedentemente autori del fortunato "
Mine". Il film racconta la storia di due amici e riders acrobatici, Max e Kyle (Lorenzo Richelmy e Ludovic Hughes) rapiti da un'associazione segreta allo scopo di farli gareggiare in una gara di
downhill. Presto però i protagonisti, dapprima entusiasti all'idea di vivere l'ennesima adrenalinica avventura insieme, si imbattono nel dedalo di pericoli e trappole che il contest ha in serbo per loro. Il sadico gioco al massacro che si innesca nell'arena naturale delle Alpi altoatesine viene seguito, passo dopo passo, dalle telecamere disseminate nel percorso e sull'imbracatura dei riders, producendo immagini ad uso e consumo dei misteriosi spettatori di questo reality sportivo e, simultaneamente, degli stessi presenti in sala. È un meccanismo, quindi, che mescola i diversi punti di vista dei protagonisti, degli spettatori diegetici e di quelli extradiegetici, facendoli combaciare con lo sguardo vorace delle venti GoPro di cui la troupe si è servita durante tutte le riprese. Quello che ne deriva è una raffica imponente di immagini, supportata da uno stile di montaggio incalzante, che rendono "Ride" innanzitutto un'esperienza visiva immersiva e intensa; in secondo luogo ne fanno un labirinto audiovisivo nel quale trovano casa i più disparati rimandi a videogiochi e riferimenti a una cultura pop anni '80 che ottiene così tanto spazio nel cinema e nella serialità di oggi.
È in questo modo che la pellicola si fa ipertesto nel quale ogni link rinvia ad un linguaggio o ad una suggestione da riprodurre in uno dei tanti schermi che raccontano e raccolgono ogni istante della vita dei personaggi in azione. L'incipit, in tal senso, è una dichiarazione di intenti: Immagini di youtube e di droni, di vertiginose scalate e di selfie spericolati compongono un mosaico che amalgama queste visioni con il setup dei due protagonisti, agli antipodi per il modo di intendere il mondo e la vita, ma accomunati dal costante resoconto delle rispettive esistenze in presa diretta.
La risposta di "Ride" alla domanda di cui sopra è, dunque, un
sì convinto.
Per chi scrive, però, è un
sì solo in potenza in quanto il film, così ambizioso nelle intenzioni, sbatte contro lo scoglio quasi banale di una scrittura non affatto all'altezza. Il debole plot di base, l'arco narrativo inconcludente dei due protagonisti e i dialoghi elementari sono difetti così vistosi da non permettere di essere nascosti neanche sotto la pregevole coltre di un impianto visivo e sonoro di altissimo livello. Nel terzo atto "Ride" finisce per accartocciarsi intorno alle sue contraddizioni narrative non riuscendo del tutto ad affrancarsi dall'impressione di essere saliti su una giostra impazzita, godibilissima per tutta la sua durata ma che poteva essere molto di più di un gran passatempo. Se tutto potrà diventare Cinema, il grande Cinema continuerà ad essere quello ben scritto.
Merita una riflessione a sé stante, invece, l'aspetto prettamente produttivo di un'opera così audace che nel panorama italiano ha pochissima parentela. Questo perché il film di Rondinelli guarda giustamente con furbizia a dinamiche produttive che l'industria nostrana ha totalmente dimenticato quali la creazione di universi narrativi, com'è potenzialmente quello di "Ride", di un
franchise riconoscibile e che dialoghi col pubblico al di là del testo filmico. È un film, inoltre, che partecipa all'onda lunga di un risveglio del cinema di genere italiano che ha già trovato in "
Veloce come il vento" o "
Lo chiamavano Jeeg Robot" degli illustri apripista.
Tutti aspetti che, al netto delle lacune già evidenziate, fanno di quella di Fabio&Fabio un'operazione da incentivare e il cui seme speriamo si propaghi nel panorama troppo spesso piatto del cinema nostrano.