Una ripresa statica di una catapecchia filmata dall’esterno, precisamente da una finestra, mentre fuori nevica. Attraverso la finestra vediamo un asino, mentre un uomo viene richiamato ai suoi doveri e a raggiungere il resto della famiglia all’interno dell’edificio principale. In quello che sembra l’incontro fra due famiglie di conoscenti comincia a notarsi qualcosa di strano: due donne, appartenenti ai due nuclei famigliari, insieme a un uomo, discutono del matrimonio, evidentemente combinato, fra il fratello minore di lui e la donna dallo sguardo spento che siede accanto a loro. Poi l’azione si sposta nuovamente all’esterno, dove la donna viene spinta ad andare a orinare e seguita fino alla porta del bagno, mentre il silenzioso uomo dell’inizio ne approfitta per ritirarsi nella sua spelonca a mangiare in isolamento. I primi minuti del sesto film di Li Ruijun, presentato alla Berlinale e riproposto poi al Far East Film Festival dove è arrivato secondo all'Audience Award, esemplificano egregiamente il resto della pellicola, sia per quanto concerne la regia, minimale ed elegante, fatta di piani prolungati e traveling shot, sia riguardo alla caratterizzazione dei due protagonisti e del mondo attorno a loro, che paiono attraversare senza quasi vernirne sfiorati.
Ciò che inizialmente unisce i due protagonisti è difatti solo l’abbruttimento in cui sono precipitati: lui è praticamente privo di un nome, venendo chiamato "ferro" (perché venuto dopo i metalli nobili, i fratelli maggiori) oppure "quarto fratello", e viene trattato come un servo dal "terzo fratello" e dalla moglie, vivendo in una catapecchia vicino alle stalle, mentre lei è stata vittima di molestie dall’infanzia fino al presente, ottenendo un’incontinenza cronica e vari traumi fisici. Umiliati, menomati e forse anche minorati, la coppia si unisce in un matrimonio combinato che paradossalmente finirà per liberarli e renderli padroni di sé stessi, nei limiti ovviamente delle possibilità di due poveri contadini che vivono nella più povera provincia cinese. Il Gansu, provincia natale di Li Ruijun e ambientazione di quasi tutti i suoi film, è difatti una distesa principalmente desertica fra l’altipiano tibetano, l’altopiano del Loess e il deserto del Gobi, insomma non un luogo particolarmente florido, in cui tutti gli aspetti più sconvenienti e brutali della vita rurale non sono solo un ricordo delle pagine più buie della storia cinese. Piatta e fredda come l’ambiente che descrive, la regia di Li si limita a osservare i due protagonisti a distanza, non perseguendo mai la partecipazione emotiva dello spettatore. Questa prolungata osservazione alla fine però dà i suoi frutti (come l’attività di coltivazione che è così centrale nella pellicola) e qualcosa germoglia, l’umanità di due persone che sembrava ne fossero stati privati.
Così la ricognizione etnografica, un sotto-genere stereotipico della produzione cinematografica cinese da festival, lascia parzialmente spazio a una peculiare love story agreste, un film sentimentale praticamente privo di effusioni, di soliloqui e di scene madri melodrammatiche, le quali vengono anzi programmaticamente evitate, con risultati invero stranianti. L’approccio quasi documentaristico del regista, come si nota nell’attenzione alle attività contadine o alle pratiche tipiche della gente del luogo (la costruzione di edifici quasi interamente in fango), finisce per trasformare "Return to Dust" in una sorta di presa diretta di una storia d’amore nel suo farsi, concentrandosi in primis su ciò che viene solitamente eliso nelle love story cinematografiche. La quotidianità di Guiying e Ferro è il focus del regista, il quale segue con notevole attenzione la costruzione del loro nido domestico, il loro trasferimento in una nuova casa costruita per l’occasione, le attività nei campi e in casa, un idillio privato (pur non privo di momenti di contrasto) che si distingue nettamente dai momenti in cui i due hanno a che fare con altre persone, caratterizzati da una tensione strisciante (le temute donazioni di sangue, le assemblee collettive, gli incontri coi parenti, etc.), la quale si dissolve invece nella circolarità e nell’ineluttabilità della vita contadina dei due sposi.
I protagonisti finiscono per divenire quasi delle maschere viventi di tradizionali valori confuciani, come la dedizione, l’obbedienza e la produttività, anche grazie alla ben poca personalità che esibiscono, se non nei rari momenti di intimità. Interpretati rispettivamente da un’attrice professionista del calibro di Hai Qing, abilissima nel ridurre l’espressività al minimo per rendere significante ogni singolo movimento, ogni occhiata, e da un effettivo contadino del posto, lo zio del regista Wu Renlin, i due creano una sinergia che è probabilmente la più manifesta forza del film, talmente verosimili da far appunto collassare un registro quasi documentaristico in un racconto potenzialmente melodrammatico. La telecamera di Li Reijun si limita a stare in disparte e seguire i due adottando una grammatica cinematografica semplice ed efficace, che contribuiscono a distanziarlo dai suoi riferimenti più diretti, come le pietre miliari della cosiddetta Quinta generazione di registi "Sorgo rosso" di Zhang Yimou e "Terra gialla" di Chen Kaige, avvicinandolo alla contemplatività di Wang Bing o del primo Jia Zhangke, d’altronde citato piuttosto apertamente nel precedente film di Li, il dramma urbano "Walking Past the Future". Ancora più dei protagonisti dei lavori dei cineasti succitati, quelli di "Return to Dust" si trovano però ad abbracciare la loro condizione in maniera fatalista, non potendo e non volendo abbandonare l’ardua vita nei campi ma dedicandovisi fino all’annichilimento, sia letterale che spirituale.
La circolarità della vita contadina si riflette nell’attenzione del regista per lo scorrere del tempo, nelle stagioni così come per la ripetitività della vita (le case che vengono distrutte a ogni spostamento in una località diversa, le continue donazioni di sangue, etc.), mentre forse solo la tragedia più grande riesce a separare i personaggi da questo eterno ritorno. E anche in quel caso si torna nel deserto, visitato dalla coppia dopo il matrimonio per rendere omaggio ai genitori del contadino, dove la verticalità delle dune spezza l’ordine orizzontale del mondo dei campi, prefigurando l’avvenire urbano del protagonista, mentre Ferro cerca di liberarsi, faticando invece a disfarsi del suo più vecchio compagno, l’asino. Ma l’uomo probabilmente troverà in città solo una nuova prigione, semplicemente diversa da quella ocra e verde che ha conosciuto finora, a rimarcare la fatalità dello sguardo del regista e sceneggiatore (e montatore e scenografo), il quale riserva quasi solo sventure e abiezione ai suoi protagonisti. Elegante e ammirevole da un punto di vista formale, "Return to Dust" è il ritorno, oltre alla terra d’origine. al cinema rurale e contemplativo da cui Li Ruijun è partito, ribadendo anche al di fuori della diegesi quanto la circolarità e l’ineluttabilità di certi eventi sia la chiave di volta interpretativa del film. In questo grande schema, dentro i cambiamenti dell’indifferente natura (l’acqua portatrice di vita e di morte), le possibilità del singolo paiono essere annichilite e nessuno più di Ferro rappresenta ciò, costantemente abbattuto e truffato senza che possa, e voglia, far nulla per ribellarsi. Similmente a lui, il film procede quasi senza scosse ed evoluzioni, non lesinando ripetizioni e ridondanze fino alla distruzione finale, per ricominciare di nuovo.
cast:
Hai Qing, Wu Renlin
regia:
Li Ruijun
titolo originale:
Yin Ru Chen Yan
durata:
133'
produzione:
Hucheng no.7 Films Productions, Qizi Film Ltd., Beijing J.Q.Spring Pictures Co., Ltd., Aranya Pictur
sceneggiatura:
Li Ruijun
fotografia:
Wang Weihua
scenografie:
Han Dahai, Li Ruijun
montaggio:
Li Ruijun
costumi:
Wu Jingyin
musiche:
Peyjan Yazdanian