La saga videoludica più longeva e fortunata del grande schermo arriva al quinto capitolo, in concomitanza non occasionale alla distribuzione del sesto, attesissimo, episodio per console. L'originalità non è mai stata il punto forte del franchise, tutt'altro. Ma ad onor del merito del regista-mestierante Paul W.S. Anderson (sceneggiatore e produttore di tutti gli episodi) va detto che i vari ingredienti alla base del successo della saga son sempre stati mescolati con una certa scaltrezza e furbizia: l'horror "politico" e infettivo di matrice Romeriana, le scazzottate orientaleggianti alla "Matrix", i riferimenti ai videogame ispiratori, le mille citazioni da classici del genere (da "
Memento" e "Cube" a "Mad Max" senza ritorno).
Ma proprio quando la saga pareva aver trovato una sua piacevole, benchè rozza, cifra stilistica, distaccandosi con decisione dai giochi della Capcom, cambiando tono di episodio in episodio (il western post apocalittico del terzo film "Extinction", sinora il più ritmato e riuscito, l'horror urbano-digitalizzato debitore del primo Carpenter del quarto "Afterlife"), questa nuova puntata del "survival horror" per eccellenza, mostra tutti i suoi limiti e potrebbe scontentare qualsiasi tipo di pubblico. Il dispendio di mezzi è maggiore rispetto a prima, e ciò impone molte più sparatorie, molti più combattimenti, molto più digitale. L'aria da
b-movie è perduta, la componente horror appena accennata, la sceneggiatura non sa dove andare a parare. Dopo un inizio anche promettente e visivamente affascinante, che mostra in
reverse ciò che è accaduto in seguito agli eventi che concludevano il precedente "Resident Evil: Afterlife", e una sequenza straniante che solletica la curiosità (quella del sobborgo borghese devastato dall'invasione di non morti), la pellicola gira a vuoto, meccanica e fredda come un videogame non interattivo. Colpi di scena assurdi fanno tornare in gioco, clonati, resuscitati o passati alla parte avversa, metà dei personaggi deceduti nei primi due film della serie, e la Jovovich, avvinghiata in una specie di tutina sadomaso, benché privata dei superpoteri che la rendevano invincibile nelle altre pellicole, è indistruttibile e inarrestabile come un Terminator.
La "sceneggiatura" è misera, priva d'ironia e mira a replicare la struttura dei giochi per console: ogni sequenza del film è strutturata come uno "
stage" autonomo (con una simulazione al computer di New York, Mosca, Tokyo) in cui si lotta per la sopravvivenza, e che si conclude con il combattimento contro il
boss di turno (l'Axeman del capitolo precedente è addirittura raddoppiato). Una noia mortale, a cui non basta di certo qualche accenno psicologico inedito (Alice/Milla che diventa "mamma" come Ripley in "Aliens") a conferire spessore e umanità. E tutto sembra solo un lunghissima, insulsa, sequenza di raccordo, per il
cliffhanger finale, che rilancia l'avventura al sesto episodio (quello conclusivo, in teoria), con la battaglia finale tra i sopravvissuti umani, assediati all'interno della Casa Bianca, e l'esercito di morti viventi. Vedremo. Per stavolta la partita si conclude con un Game Over.