Succede che un prodotto cinematografico dichiaratamente di serie B faccia di questa secondarietà il suo punto di forza. Succede che la mediocrità diventi stile e che un'attrice sia la salvezza di una intera saga altrimenti destinata al fallimento più catastrofico (altro che apocalisse da T-Virus!). Succede che l'ultimo capitolo di questa esalogia ne rappresenti la summa a tal punto da farci sperare che si tratti davvero dell'ultimo capitolo e, allo stesso tempo, che i fan più appassionati non restino orfani di Alice.
"Resident Evil: The Final Chapter" risorge letteralmente dalle ceneri del precedente "Retribution": tra i resti fumanti della Casa Bianca prende il via una corsa contro il tempo che vede l'acrobatica e guerriera eroina ritornare a Raccoon City, dove tutto era iniziato, per salvare una volta per tutte l'umanità dai diabolici piani della Umbrella Corporation. Tra assedi, orde fameliche di non-morti e alleanze inaspettate si compirà per Alice la resa dei conti finale, che la metterà finalmente dinanzi alla propria identità.
Giusto il tempo del riassuntone iniziale ed entriamo subito nel cuore del film, ovvero nell'azione spasmodica che sfida di continuo le leggi della coerenza narrativa e mette a dura prova la sospensione dell'incredulità anche nello spettatore più devoto alla "fede poetica"[1]. Dall'insistente attacco di un mostro volante sino alla scena finale è tutta una giostra di micro-sequenze iper-dinamiche e accelerate, inframezzate da qualche decina di secondi di quiete che l'umano, troppo umano regista concede ai nostri occhi stanchi. Ciascun episodio (sì, lo sviluppo della trama risulta piuttosto frammentario) diventa un'occasione per mettere in moto quel montaggio frenetico di mestiere che esalta acrobazie, esplosioni e combattimenti, mentre agli appassionati della saga viene dato furbamente in pasto un classico epilogo disvelante, che soddisfi gli appetiti di coloro che, a fronte di una miriade di buchi e insensatezze, un risarcimento pur minimo di coesione nella linea del racconto lo pretendono. Ecco il triste paradosso: ad un film votato interamente all'esibizionismo visivo-sonoro viene affidato il compito di chiudere il cerchio e, dunque, di fare senso (il fatale peso del final chapter).
Qualcosa da salvare resta ed è ovvio che tale percentuale di bontà rechi quasi tutta il segno dell'algida e magnetica Milla Jovovich, vera anima di un progetto che in quattordici anni una conquista l'ha fatta, milioni di dollari a parte: ha dato vita a un personaggio di culto. E il merito è tutto suo. Tuttavia, va anche riconosciuta una certa onestà al padre di questa sesta fatica (e della bambina che interpreta la Regina Rossa, avuta dalla Jovovich), il regista Paul W. S. Anderson, il quale confeziona un prodotto per palati grossi senza spacciarlo per altro. Non vi è alcun dubbio sulla regressione rispetto al primo "Resident Evil", ad esempio, dove almeno la tensione contribuiva significativamente in termini di riuscita narrativa, ma un plauso alla sincera spettacolarizzazione del nulla è quantomeno doveroso.
[1] Samuel Taylor Coleridge, Biographia literaria. Capitolo XIV.
cast:
Milla Jovovich, Iain Glen, Ali Larter, Shawn Roberts, Eoin Macken, Fraser James
regia:
Paul W.S. Anderson
titolo originale:
Resident Evil: The Final Chapter
distribuzione:
Warner Bros. Pictures
durata:
106'
produzione:
Paul W. S. Anderson, Jeremy Bolt, Samuel Hadida, Robert Kulzer
sceneggiatura:
Paul W. S. Anderson
fotografia:
Glen MacPherson
scenografie:
Edward Thomas
montaggio:
Doobie White
costumi:
Reza Levy
musiche:
Paul Haslinger