La presenza nel concorso ufficiale di una commedia sentimentale come quella diretta da Axelle Ropert sorprende due volte: la prima, di natura squisitamente statistica, nasce dal pregiudizio di taluni degli aventi causa che, considerando il genere in questione troppo frivolo per l'importanza di un festival cinematografico tendono a escluderlo dalle selezioni; la seconda invece, di tipo realizzativo, riguarda il coinvolgimento di Arte, la casa di produzione diretta da Olivier Père abituata a target diversi da quelli che l'hanno vista coinvolta nella progetto di "La prunelle de mes yeux". In realtà, fatte salve le divergenze di opinione che, se indirizzate a dovere possono trasformarsi in un ritorno pubblicitario a costo zero, è doveroso premettere che le credenziali della regista francese sono tutt'altro che disprezzabili, essendosi la stessa fattasi le ossa dapprima lavorando come critica cinematografica di prestigiose riviste francesi e, passata dietro la macchina da presa, partecipando con il suo primo film al festival di Cannes del 2009.
Certo, come dicevamo, la forma di "La prunelle de mes yeux" non si distingue da quella di molte commedie romantiche d'oltre oceano in ragione di un format che fa degli opposti caratteriali il trampolino di lancio per una guerra dei sessi destinata al lieto fine solo dopo una lunga serie di incomprensioni. Inquilini dello stesso condominio, Theo e Alice infatti riescono a trovare il modo di litigare anche nei minuti che l'ascensore impiega per portarli al piano terra. A complicare le cose poi concorrono la precarietà lavorativa di lui, che insieme al fratello cerca di entrare nel mondo della musica e nel frattempo si deve accontentare di suonare nelle feste matrimoniali, e la menomazione di lei, cieca dalla nascita e con una sorella tormentata da problemi di tossicodipendenza. Tutto ciò però non sarebbe sufficiente a far esplodere la tenzone se la sceneggiatura non scegliesse di creare le premesse del disastro, immaginando che Theo per vendicarsi della scortesia della ragazza decidesse di farla innamorare fingendosi cieco.
Un
escamotage, quello della disabilità che il cinema francese diversamente da quello americano ha dimostrato ("Untouchable","
La famiglia Bélier") di saper fare a meno della retorica e del buonismo che di solito fa da commento al tipo di vicissitudini dei protagonisti: da un lato riuscendo a emanciparsi dalle trappole del
politically correct, mandato in soffitta da una
verve comica capace di far ridere pur nel rispetto delle sofferenze altrui; dall'altro, offrendo al pubblico interpretazioni misurate e volte a privilegiare la dignità di Alice rispetto all'eccezionalità della sua costrizione fisica. Non è dunque il premio Oscar l'obiettivo ultimo della Ropert che, nella direzione degli attori tende far dimenticare gli aspetti legati alla malattia e alla menomazione della ragazza (alle quali il film ricorre solo per motivi funzionali alla storia), cancellate dai primi piani che fanno degli occhi ( peraltro bellissimi di Melanie Bernier) il termometro dell'amore crescente tra i due protagonisti. Certo, alla luce di quello che abbiamo visto "La prunelle de mes yeux" non mantiene tutto ciò che promette perché pur con la classe e l'eleganza che contraddistingue la messinscena della Ropert - ambiziosamente ispirata per la stessa ammissione della regista alle commedie di Ernst Lubitsch - il film appare troppo ordinato nel suo svolgimento rispetto all'eccezionalità di ciò che racconta. E anche il tentativo di riflettere il disagio giovanile attraverso l'instabilità lavorativa di Theo e del fratello, sistematicamente frustrati nel tentativo di coniugare aspirazioni artistiche ed esigenze alimentari, funziona più come alternativa al nucleo narrativo principale che come testimonianza di una coscienza attenta al sociale.
07/08/2016