Sarebbe corretto a metà pensare che il metro di giudizio più attinente a Jodorowsky fosse Jodorowsky stesso. Non perché implausibile ma perché di rado l'opus dell'Imbroglione Sacro si schiude all'approccio del giudizio critico. L'attività di Jodorowsky, nella galassia di ambiti disciplinari in cui si esprime (e su cui si è formata), ci richiede meno razionalità che intuizione. Meno riflessione che riflesso. Come si trattasse di un enorme, implicito rituale (psicomagico, direbbero i seguaci) che con l'atto poetico, cioè pragmatico-metaforico, movimenta l'inconscio di chiunque si appresti a sfogliare "L'Incal", guardare "El Topo" o farsi leggere i tarocchi. In concreto, spesso è Jodorowsky medesimo a smantellare la cifratura delle allegorie ("Zoom indietro!"), a scoprire il senso (del ridicolo), a maturare il simbolo in arnese (e viceversa). E in "Poesia senza fine" dispone del cinema per elaborare un'introspezione (e retrospezione) che fa letteralmente danzare la realtà circostante, dove la memoria non è filtro selettivo bensì riscrittura del mondo e ogni dettaglio reclama connotati, dimensioni e colori della propria effettiva rilevanza, come la sedia gigantesca che fa da tramite all'incontro con Enrique Lihn. L'incontro è la stazione cruciale dell'iter autobiografico di Jodorowsky, il mitologema, la scansione di un racconto di formazione che, in assonanza surrealista, dialoga con il (linguaggio del) sogno e inizia lì dove finiva "La danza della realtà" (2013). Da una partenza. E quindi, da un approdo.
Di colpo avevo scoperto il surrealismo! Più tardi non ebbi nessun problema a comprendere la frase del futurista Marinetti: "La poesia è azione".*
Ma prima dell'incontro c'è la famiglia. Ispezionare la genealogia, individuare l'ingerenza subliminale dei legami parentali (a partire dai nomi) e mimarla terapeuticamente sono basi della "dottrina" jodorowskiana. A tale riguardo si osserva - con rispettosa malizia - che "Poesia senza fine" è una piccola impresa famigliare. L'esimio genitore ha coinvolto la progenie come già in molti precedenti film e performance di varia natura. I figli Adan e Brontis infilano i panni di Alejandro e di suo padre Jaime, l'arte e la libertà l'uno, il denaro e la stoltezza l'altro. In calce, Jodorowsky li sfrutta per risolvere per interposta persona il proprio (dunque anche loro?) conflitto insoluto con l'autorità paterna, certificando la quintessenza di "Poesia senza fine" nei termini di un'operazione autocurativa in cui soggettività e oggettività, pensiero e materia, avvenimento e fantasia dell'avvenimento hanno peso uguale, e uniti assaltano l'idea di evidenza negando il passato sia in quanto terra straniera sia quale archivio di dati, fatti e immagini immutabili.
La poesia operò un cambiamento fondamentale nel mio modo di agire. Smisi di vedere il mondo attraverso gli occhi di mio padre. Mi era consentito tentare di essere me stesso.*
Così come assegna al padre Jaime e al dittatore cileno Ibáñez il volto unico di Brontis, Jodorowsky dà al soprano Pamela Flores il doppio ruolo della madre Sara, che parla cantando, e della poetessa Stella Díaz Varín, suo sregolato amore giovanile, un quadro edipico che non esige spiegazioni e tuttavia si allarga in una rete di ulteriori figure e relazioni simboliche, dettando continui salti percettivi (fino al senso ottuso) e cognitivi. Stella, dal corpo procace, massiccio, dipinto di ogni colore e dalla chioma innaturalmente rossa, si concede all'amante col divieto di penetrarla (riserva l'imene alla deità). Per lei Alejandro ruba i soldi del padre, tramite lei incontra l'anti-Neruda, anti-poeta, Nicanor Parra, fratello di Violeta, che lo pone al bivio borghese fra vita e arte, illuminandolo sull'intenzione di andare a Parigi da Breton per "salvare il surrealismo" (ipse dixit).
Ma prima di emigrare il nostro eroe diventa per miracolo celeste proprietario di un grande atelier, crea l'happening prima del conio della definizione teatrale, e si accompagna al poeta coetaneo Enrique Lihn, con il quale fa suo il dovere di sottolineare il carattere imprevedibile della realtà lasciandolo scaturire da una sorta di attivismo poetico - azioni come attraversare la città in linea retta senza aggirare gli ostacoli o "contaminare" l'intelletto con la carne (macinata, tirata addosso agli accademici cileni).
Negli anni Quaranta e all'inizio degli anni Cinquanta, in Cile si viveva poeticamente come in nessun'altra parte del mondo. [...]C'erano due generi di poesia: quella scritta [...], creata unicamente a beneficio del poeta, e la poesia di atti, che doveva realizzarsi come un esorcismo sociale difronte a numerosi spettatori.*
Il Cile in cui Alejandro cresce è un paese a mille teste senza logica, dove perfino i barboni ubriachi declamano versi ma che poi saluta in un'orgia di svastiche il ritorno di Ibáñez e organizza parate in suo onore. Per realizzarlo, Christopher Doyle interpreta con violente composizioni di luce, specie in interno e nella splendida danse macabre conclusiva, una furia narrativa che non si limita a trasfigurare la "storia vera", lavorandone perciò l'apparenza in funzione retorica (ricordate "Big Fish"?), ma ne mostra la sostanza, seppure incredibile. L'occhio della cinepresa come gli occhiali di "Essi vivono". Non è andata così "più o meno", è andata così e basta: l'abnorme testa di Jaime che dà del maricón al figlio, la camminata sempre en pointe di Verónica Cereceda (in ottica simile, non per svelare l'artificio del dispositivo e profanare la sospensione d'incredulità, recepiamo palesi strappi diegetici: sagome e fondali di cartone, burattinai tipo Bunraku - metafisica piuttosto che metacinema?). Jodorowsky consacra - ancora - il medium al disordine della verità (celata), non al ri-ordine (tecnico, estetico) della sua rappresentazione. All'alchimia fra spirito e spettacolo, mistica e barzelletta, senza farne problema di stile (sottotitolo: del fregarsene se a una "bella" messa in scena non sempre corrisponde una "buona" messa in quadro). Sull'orlo dei novant'anni, ne ricava un testo che si flette sul saggio e cialtronesco egocentrismo del suo autore per sferrare pugni alle regole dell'ovvio. E dato che "Poesia senza fine" ribalta ogni elemento addosso al proprio inverso, non serve a bocciarne o elogiarne l'alterità, l'assurdità, dire che è anche sciatto, lirico e aforistico fino al risibile, ampolloso, con atteggiamento che ora sembra inconsapevole, ora provocatorio. E neppure significa banalizzarlo o idealizzarlo cogliervi all'interno le rimostranze di un sentimento (da animale) politico, insurrezionale, opposto al regime dell'adattamento sociale alla forma dell'accettabile, del subito riconoscibile. Resta da chiarire se a considerarlo il riverbero di un intero, sincretico, sistema filosofico (pur da non-discepoli ci assumiamo la responsabilità della qualifica), e non "soltanto" un film, gli si faccia del bene o del male.
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*Alejandro Jodorowsky, La danza della realtà, Milano, Feltrinelli, 2006
cast:
Adan Jodorowsky, Brontis Jodorowsky, Pamela Flores, Jeremias Heskovitz, Carolyn Carlson
regia:
Alejandro Jodorowsky
titolo originale:
Poesía Sin Fin
distribuzione:
Mescalito Film
durata:
128'
produzione:
Xavier Guerrero Yamamoto, crowdfunding
sceneggiatura:
Alejandro Jodorowsky
fotografia:
Christopher Doyle
scenografie:
Alejandro Jodorowsky, Patricio Aguilar, Denise Lira-Ratinof
montaggio:
Maryline Monthieux
costumi:
Pascale Montandon-Jodorowsky
musiche:
Adan Jodorowsky