Il pleure dans mon coeur
Comme il pleut sur la ville(Paul Verlaine)
Mentre il 1929 allungava l'ombra della depressione sull'economia di mezzo mondo, l'Europa si preparava a conoscere uno dei più floridi momenti di sviluppo della settima arte, pungolata da un lato dalla furia iconoclasta delle avanguardie storiche e, dall'altro, dalle incessanti riflessioni sul linguaggio audiovisivo promosse da una rinnovata coscienza del mezzo dopo i successi del cinema narrativo di matrice statunitense. In quell'anno Salvador Dalì trascorreva intere giornate riempiendo di pece le orbite di asini impagliati (che avrebbero dato vita ad una delle tante sequenze allucinate del
buñueliano cane andaluso) e non doveva risultare troppo curioso per un moscovita vedere un cineoperatore aggirarsi alla caccia di immagini quotidiane nel capoluogo della neonata Unione Sovietica, ma oltre i roboanti manifesti di "
Un Chien Andalou" e "L'uomo con la macchina da presa" fece capolino l'indiscreto sguardo di un giovane e misconosciuto olandese, capace di raccontare, con un impeto lirico avulso dall'imperante oggettività didattica del diffuso cinema documentario, la poesia nascosta dietro una semplice giornata di pioggia.
In questo semplice gesto, nella capacità di restituire l'impronta cinematografica di un istante senza esiti o genesi impervie, svincolato dalla contingenza della Storia, un evento senza negoziati, truppe e generali, senza scontri ferroviari, eruzioni e smottamenti, senza itinerari esotici e indugi antropologici, sta tutta la carica rivoluzionaria dell'intuizione di Ivens, che non si limita a registrare lo spazio, comprimendolo nei bordi dell'inquadratura, ma lo evoca, seguendo una logica astratta di luci, riflessi e volumi. È l'impressione di un evento futile e transitorio, l'umbratile sensazione di umidità evanescente che assurge a vera protagonista dell'opera, con un'intensità tale da richiamare alla mente i versi della poetessa Wisława Szymborska: "A tale vista mi abbandona sempre la certezza / che ciò che è importante / sia più importante di ciò che non lo è". [1] Con un netto scarto dal piatto cronachismo della mera divulgazione, Ivens mette in scena un'avventura dello sguardo che muove dai vibranti riverberi del sole sui canali di Amsterdam e si sposta attraverso l'incedere cupo di nuvoloni gonfi di pioggia, oltre le prime gocce sottili che bucano gli specchi d'acqua, fino all'esaurirsi del trambusto atmosferico nell'umida prospettiva di uno squarcio cittadino. Una successione cadenzata che ha l'umore e il ritmo di una sinfonia visuale, orchestrata secondo un crescendo di percezioni contaminate, che valicano il semplice piacere dell'occhio ed esplicitano, nella composizione dei quadri, un'esperienza sensoriale avvolgente e totale, un "realismo sinestetico" che il regista ha mutuato dalla ricca tradizione pittorica olandese. Non sono, in fondo, trascorsi troppi anni da quando Van Gogh ha fissato su tela la sua lezione, restituendo nei tipici colori terrosi, aggrumati e materici finanche gli odori e i sapori dell'atmosfera densa e asfittica di un pasto contadino. [2] I fotogrammi di "
Pioggia" sono inzuppati di quella stessa umidità che li attraversa in forma di fiumi, canali, pozzanghere, goccioloni e nembi, sembrano pronti a tremare nei riverberi di luce, a gonfiarsi, investiti dalle folate di vento che imbottiscono i panni stesi ad asciugare. Annota Ivens nella sua autobiografia: "E' incredibile come ci si dimentichi facilmente degli elementi fondamentali del proprio argomento e quanto questi fattori elementari siano importanti per il lavoro. Durante la lavorazione di
Regen ("Pioggia", ndr) dovetti ricordarmi continuamente che la pioggia è bagnata: perciò lo schermo doveva trasudare umidità, inzuppare il pubblico" [3]. Effetto perseguito cinematograficamente attraverso un montaggio incalzante, capace di duplicare ad ogni ripresa il senso del bagnato, dalle visioni ravvicinate di gocce che scivolano su un vetro appannato, sino all'acme di una pioggia torrenziale che si riversa nel bacino del fiume. "Quando gli spettatori pensano che non potrebbero sentirsi più bagnati di così, io raddoppio il bagnato [...], lo rendo super bagnato". Al punto che, replicando in sordina la leggenda che vuole gli spettatori parigini nascosti sotto le sedie all'arrivo del treno dei Lumière, Ivens narra che, durante una delle prime proiezioni, ebbe la soddisfazione di vedere gli astanti cercare gli impermeabili per poi avere, all'uscita, la sorpresa di trovare il bel tempo.
Raccontare la trama di questo gioiello del cinema documentario appare, si sarà capito, abbastanza inutile. Non c'è alcun impianto narrativo a sorreggere il film, che si afferma come architettura di se stesso, capace, cioè, di rinvenire le proprie ragioni nell'interna dialettica del montaggio, che il regista olandese ha appreso dalla scuola russa, in specie sbobinando le copie di "Arsenale" di Dovženko e "
La corazzata Potëmkin" di Ejzenštejn ed analizzandole inquadratura per inquadratura nella lunghezza, nel ritmo, nella composizione (da qui le ardite prospettive, i punti di vista sbilenchi, i brevi stacchi di inquadratura). Indugiando sulle qualità espressive degli oggetti e sorvolando sulle curiosità propriamente antropologiche, che prevarranno nei successivi lavori, Ivens fissa l'occhio su una giornata di pioggia alla ricerca dei segni cinematografici di una realtà (la pioggia, appunto), che non è quasi mai affrontata direttamente, ma intuita nei rapporti che essa instaura con altre realtà. Come un archeologo che ricostruisca un'ipotesi di vita organica a partire dalle tracce fossili, il regista indaga la pioggia seguendone le impronte evanescenti, la evoca nel frullare del fogliame, nel movimento di una finestra che sbatte, nell'ingrossarsi dei tendaggi, la intuisce nelle onde circolari che si allargano sui canali, nel gesto di un passante sorpreso dalle prime gocce, nella rapida schiusa degli ombrelli, nell'affrettarsi dei carrettieri, nelle tracce fangose degli pneumatici. Non è l'evento in sé a suscitare interesse, piuttosto il tessuto di relazioni in cui è implicato; non è sulla pioggia che si concentra la partecipazione dello sguardo cinematografico, ma sulla sua espressione figurativa, che è, per natura, variegata, mutevole. Ed è in questa volontà di esplorare il sottinteso, di allargare lo sguardo ad un orizzonte di realtà interconnesse che si scopre la differenza dal coevo "
H2O", acquoso corto sperimentale d'oltreoceano, in cui il fotografo Ralph Steiner, pur impostando la propria ricerca sul piacere della percezione visiva, fissa il suo (cine)occhio direttamente sull'oggetto, scandagliandone le possibilità dinamiche, plastiche e cromatiche, ma isolandolo dalle nature circostanti. Laddove l'olandese scompone la percezione del fatto nelle prospettive dell'interazione umana, Steiner si limita a costruire una fenomenologia estetica dell'acqua.
Ivens, dal canto suo, non filma un acquazzone, ma una moltitudine di acquazzoni, disgregando l'unità temporale dell'evento nelle sfaccettature di un'esperienza reiterata, ricomposta, dal montaggio, nell'unico stato di coerenza possibile: quello dell'espressione iconica. Per quattro mesi il regista olandese vive "con la pioggia e per la pioggia", portando sempre con sé la cinepresa al lavoro, in laboratorio, in treno, per la strada, organizzando persino una rete di informatori, per lo più amici, con il compito di avvertirlo quando si fossero verificati nei vari quartieri della città, gli effetti di pioggia desiderati. Fu in quel periodo che imparò l'importanza di una ripresa spontanea ed immediata, lasciandone traccia nei saltelli delle ragazzine, protette dall'impermeabile, sotto la pioggia, le cui scattanti movenze diventano, nel film, motivo di un'accelerazione del montaggio e duplicano il ritmo cadenzato delle gocce cascanti.
Alla ricomposta unità temporale, corrisponde, però, uno sfaldamento del senso spaziale, al punto che tra spazio e tempo sembra vigere un rapporto chiastico: laddove il secondo viene disgregato in fase di ripresa e ricostituito in senso estetico nel montaggio, il primo percorre un movimento speculare. Se, infatti, le riprese vennero effettuate interamente nella capitale olandese, è pur vero che il luogo fisico dell'azione, Amsterdam, appare assolutamente contingente, oltreché visibilmente riconoscibile solo in poche inquadrature: nelle punte svettanti di case ammassate le une sulle altre o nelle facciate senza profondità scandite da una rigida tessitura geometrica, che sembrano uscite da un quadro di Mondrian. Emerge, questo sì, la perizia nello sfruttare le possibilità luminose e cromatiche offerte da una città costruita sulle acque, ma che si tratti degli
stadsdelen di Amsterdam o dei sestieri di Venezia è del tutto ininfluente e il collage di scorci urbani ha più la funzione di esaltare le qualità pittoriche dell'immagine piuttosto che di limitare i confini un'area geografica.
Quest'avventura dell'oggetto disgregato nelle sue possibilità di ripresa non è certo una novità per il regista olandese, che già aveva avuto modo di affinare la propria competenza tecnica con il precedente "
De Brug" ("Il ponte"),
vademecum delle opportunità offerte dai movimenti di macchina. In dieci minuti l'unità fisica del corpo viene frantumata in un affastellarsi di piani e angolature, che ne esaltano i valori geometrici e, nella sottesa ambizione ad un'espressività pittorica, chiamano a modello le intuizioni neoplastiche del movimento
De Stijl. Eppure sbaglierebbe chi volesse incanalare le ricerche di Ivens lungo i binari dell'astrattismo, nella tradizione di Eggeling, che in quegli anni, con "
Symphonie Diagonale" [4], di fatto apriva la strada agli esperimenti geometrici in cui generiche forme si muovono nello spazio seguendo ideali ritmi musicali. Pur consapevole di queste esperienze, Ivens non ebbe mai la tentazione di considerare l'arte cinematografica un puro esercizio semantico e, se "De Brug" può indurre a crederlo, ciò si spiega col fatto che dallo stesso regista esso è considerato una sorta di prova generale, uno studio attento dei movimenti di camera in vista di prove più concrete. In effetti, il fascino profondo del successivo "Pioggia" risiede proprio nella capacità di equilibrare la ricerca di un naturalismo che non sfaldi i contorni dell'oggetto sino alla pura geometria con l'esigenza evocativa di tradurre le immagini di un temporale in forme universali, quasi astratte, che allontanino il pericolo cronachistico della natura morta.
Nel corso degli anni "Pioggia" ha condiviso il destino delle grandi opere d'arte, mantenendo intatto il proprio valore comunicativo, malgrado le sbarre oltre cui certa critica, mossa dal tentativo malcelato di individuare un movente politico come filo conduttore dell'intera opera di Ivens, ha tentato invano di forzarlo. E così nei pochi fotogrammi che vedono un pedone schizzato dall'onda sollevata da una vettura di passaggio si è voluta, addirittura, individuare una critica all'indifferenza sociale [5], né ciò è tutto, visto che in anni più recenti l'immagine degli ombrelli che ricoprono a corazza un'umanità in fuga dalla pioggia è stata interpretata come "una sorta di mutazione collettiva kafkiana, dove il bisogno di protezione dalla pioggia strizza l'occhio all'idea della perduta identità del singolo, la spersonalizzazione dell'individuo che la città impone" [6]. Se aggiungiamo che poche righe dopo, l'autore dell'articolo vede la presenza dell'acqua come "elemento fertile e materno" e, con un mirabolante volo pindarico, giunge a collegare "Pioggia" e "Il ponte" asserendo che "Se
Regen rappresenta l'utero materno, allora
De Brug forse descrive un enorme cordone ombelicale", allora possiamo farci un'idea delle deformazioni interpretative, alle quali può condurre la ricerca a posteriori di un modello univoco cui conformare il pregiudizio su un'opera. Per nostro conto preferiamo l'impeto filologico alle parole in libertà e ci limitiamo a ricordare, come chiosa chiarificatrice, le parole rivolte nel 1974 dallo stesso Ivens agli studenti dell'Accademia tedesca del cinema e della televisione di Berlino - Ovest: "
Regen era veramente il film di un formalista convinto. Si trattava semplicemente di prendere un oggetto ed imparare a filmare, senza considerarlo assolutamente da un punto di vista sociale".
Nato come uno scherzo o una scommessa con l'amico scrittore Mannus Franken durante le riprese di "Branding" (precedente film a soggetto sull'amore tragico di due giovani indigenti), "Pioggia" seppe farsi strada nel mare delle pellicole d'avanguardia sino ad affermarsi come fulgido esempio di un cinema documentario capace di relazionarsi in modo inedito con i fatti e gli oggetti del mondo, di cogliere il dettaglio, il riflesso, l'attimo in cui il quotidiano svela la propria bellezza; un cinema teorico nei presupposti, ma saldamente calato nella prassi della rappresentazione, capace di intercettare il bisogno di meraviglia del pubblico e scoprendolo nelle piccole cose della vita di tutti i giorni.
Una nota a margine: del film esiste anche una versione musicata da Lou Lichtveld e risalente al 1932. Ciò nonostante continuiamo a preferire la versione originale muta, in cui la forma sonora scaturisce direttamente dalla successione dei quadri e lo spettatore attento, pervaso dal ritmo delle immagini, può persino riuscire a sentire i refoli di vento o i rintocchi delle gocce sulle cupole degli ombrelli.
[1] Wisława Szymborska,
Non occorre titolo, 1998.
[2] A proposito de "I mangiatori di patate", scriverà lo stesso Vincent al fratello Theo: "Se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalle patate bollenti - va bene, non è malsano", elaborando un criterio di bellezza realistica, in quanto aderente al soggetto dipinto.
[3] Joris Ivens,
Io-cinema. Autobiografia di un cineasta, Milano, Longanesi, 1979.
[4] Sul cartellone che apre il film si legge quella che può essere considerata un'indiretta dichiarazione di intenti (evidentemente molto distante dall'approccio di Ivens) a firma dell'artista Frederick J. Kiesler: "Made in 1924 by Vicking Eggeling, SYMPHONIE DIAGONALE is the best abstract film yet concieved. It is an experiment to discover the basic principles of the organization of time intervals in the film medium."
[5] L. Gizio,
Cinema n.54, 1951
[6] Danilo Del Tufo,
Analisi e decoupage del documentario "Regen" di Joris Ivens.
01/04/2013