"Pensistu di meritâti chist miracul?"
(dal film)
Fin dal suo titolo l’esordio al lungometraggio di fiction di Laura Samani mette subito in risalto il suo focus principale: un piccolo corpo – un piçul cuarp – che non viene incarnato solamente dal cadavere della neonata che la protagonista Agata si porta dietro (mi si perdoni il friulanismo, dato il contesto) per tutta la sua peregrinazione alla ricerca del santuario in cui si narra che gli infanti nati morti vengano resuscitati il tempo necessario per ricevere il battesimo, ma che va inteso come un concetto che si presta a una lettura su più livelli.
Il corpo umano è difatti piccolo, quasi minuscolo, rispetto alla monumentalità della natura, la quale è vivida e personificata come la cultura contadina vuole e troneggia sulle sagome dei fragili umani nei pochi istanti in cui la regia abbandona i long take con la camera a mano che insegue i corpi e opta per campi lunghissimi che tradiscono i trascorsi documentaristici della cineasta ma anche il gusto pittorico della fotografia di Mitja Licen.
Più nello specifico, è debole e minuto in particolar modo il corpo dell’isolana Agata, che la sua ferrea determinazione sottopone a ogni sorta di patimento in un viaggio che diretto da altri sarebbe potuto divenire una picaresca avventura action, quasi un buddy movie al femminile (?).
Il tour de force interpretativo a cui l’esordiente Celeste Cescutti si è sottoposta è davvero notevole, ed è un’altra delle tante frecce nella faretra di un film che è piccolo soprattutto per quanto concerne l’apparato produttivo. Si arriva così a un ulteriore livello discorsivo del "piccolo corpo" nella pellicola, quello metacinematografico. Difficile non coglierlo parlando di un film a basso budget, girato ai margini del paese e dell’industria e che si fa vanto del proprio attaccamento alla realtà locale e al suo immaginario, elevandosi perciò a "piccolo corpo" in balia del mare del cinema italiano, che, nonostante i sempre più frequenti spasimi del cinema di genere e delle produzioni di provincia (le film commission ringraziano), resta sempre romano-centrico e focalizzato su pochi, redditizi e/o facilmente spendibili, filoni.
Ciononostante, così come il piçul cuarp eponimo, il film di Samani si è infine fatto un nome, a partire dalla presentazione alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes fino alla coraggiosa distribuzione a opera di Nefertiti Film di Alberto Fasulo e Nadia Trevisan.
A questo punto va chiarito che la particolarità del film non è riconducibile a ragioni stilistiche, in quanto l’esordio di Laura Samani non si sbilancia rispetto alla grammatica para-documentaria che è propria di molto cinema indipendente, in funzione in primis delle ambizioni etnografiche e ricostruttive che comportano la scelta di soluzioni registiche minimali e che perseguono un certo grado di leggibilità. Allo stesso modo la regista triestina raffredda il più possibile il pathos che ci si potrebbe attendere da una storia simile, affidando la recitazione quasi solamente a interpreti non professionisti, di cui sono i gesti e gli sguardi a comunicare le emozioni e i pensieri, concordemente con l’aspro mondo del Friuli rurale di inizio Novecento. È infatti il rigore mimetico del film di Samani a dargli una personalità specifica e a renderlo ben distinguibile all’interno di una vasta schiera di produzioni low budget dalla regia composta, dal cast amatoriale, dalla colonna sonora inesistente e dalla trama elementare quanto spesso anodina. Fortunatamente non è il caso di "Piccolo corpo", che, come si accennava in precedenza, non sarebbe stato inadeguato nella forma di una sorta di western/coming of age fra i boschi e i monti della Carnia, tanto è chiara la direzione del racconto e ben cadenzato il ritmo delle peregrinazioni di Agata e Lince, l’ambigua e sfuggente figura che si trova suo malgrado a scortare l’isolana venetofona in un mondo che le è incomprensibile.
Culmine delle ambizioni mimetiche della pellicola, e della loro riuscita, è infatti la componente linguistica. In "Piccolo corpo", per l’appunto, ogni personaggio parla la lingua della sua comunità e pare sordo a ogni altra forma espressiva, non solo linguistica, come si evince dalla frequente presenza di fraintendimenti nella narrazione. Le uniche eccezioni sono ovviamente le due protagoniste: Agata, la quale pur parlando solo maranès riesce comunque a capire quasi sempre tutti e a farsi intendere facilmente, proprio in virtù della suddetta determinazione, e che è l’unica persona in tutto il film a cercare di imparare la lingua dell’altro; Lince, che è l’unica a sfoggiare un esplicito bilinguismo che ne rispecchia la connotazione transitoria, fra i generi (ragazzo per tutti, tranne che per la sua isolata comunità materna), fra gli ambienti (i monti della Carnia e la pianura della Furlanie), fra le comunità (friulanofona e slovenofona) e, alla fine, anche fra i mondi, fra quello della realtà concreta minuziosamente ricostruito da Laura Samani e dalla sua eccellente troupe e quello della realtà ineffabile in cui i miracoli avvengono e i simboli si materializzano, e che in questo "piccolo mondo antico" deve necessariamente esistere per poter attribuire significato alla spietata vita di tutti i giorni.
Al riguardo è significativo che un ruolo così particolare, quello di una persona esterna a ogni contesto specifico, sia affidato all’unica attrice professionista del progetto, Ondina Quadri, la cui peculiare espressività evidente fin da "Arianna" arricchisce un’interpretazione che è la più sfaccettata della pellicola (e pazienza se il suo friulano carnico non convince un orecchio abituato).
La particolarità delle due protagoniste permette loro di avvicinarsi al mitico santuario dei miracoli, da cui pare che nessuna donna sia tornata a raccontare ciò a cui ha assistito, ma solamente a una di loro, la transitoria Lince, sarà concesso di porre fine al viaggio, ovviamente metafora della presa di consapevolezza di sé e di conoscimento del mondo e quindi inerentemente trasformativo. A questo punto si compie anche la trasformazione del film stesso, rimarcando quanto una prospettiva metalinguistica non sia inadeguata per analizzare un’opera pur così materica e concreta come "Piccolo corpo", il quale si muta in una parabola immaginifica e simbolica, simile a quelle descritte dagli ex voto che affollano i santuari.
La trasformazione non è imprevista ma viene progressivamente costruita nelle diverse stazioni di questo calvario tutto femminile (e difatti nessun ruolo rilevante è attribuito a un personaggio maschile, se si esclude forse lo schivo Ignac che rivela la leggenda del santuario), d'altronde realizzato da una crew composta principalmente da donne, passando attraverso rocamboleschi incontri con briganti, catabasi nel buio di una montagna divoratrice di feminis, la simbolica svestizione e vestizione dell’eroina e l’attraversamento del corso d’acqua, luogo di transizione per antonomasia.
Partendo dal più rigoroso realismo, "Piccolo corpo" arriva nei territori del cinema fantastico, in cui la manifesta artificiosità dell’ambiente acquatico, e amniotico, in cui si immerge Agata non consiste in uno sfondamento della quarta parete alla maniera di Alejandro Jodorowsky ma nel riposizionamento simbolico della pellicola nel regno dell’allegoria. Le chiare metafore di cui il film si fa portatore allora si schiudono, lasciando la pellicola con un ultimo abbraccio di maternità riconquistata, mentre la musica, quasi assente dal resto della pellicola se non in forma di villotte cantate dai personaggi, sommerge tutto con un intenso corale. E il film, iniziato nel bianco del latte e della purezza, si chiude nel nero.
"No vê plui pôre dal scûr. Tu sês libare"
cast:
Celeste Cescutti, Ondina Quadri
regia:
Laura Samani
distribuzione:
Nefertiti Film
durata:
89'
produzione:
Nefertiti Film, Tomsa Films, Vertigo, Rai Cinema
sceneggiatura:
Marco Borromei, Elisa Dondi, Laura Samani
fotografia:
Mitja Licen
scenografie:
Rachele Meliadò
montaggio:
Chiara Dainese
musiche:
Fredrika Stahl