Guillermo Del Toro sembra destinato a lasciare andare le sue creature "da
franchise",
blockbuster dalla pre-produzione complessa e stratificata quanto la realizzazione, dei quali è necessario far passare la notizia di sequel a venire per titillare i gusti seriali dell'attuale pubblico. Dopo "
Hellboy", tocca a "
Pacific Rim": Del Toro lascia il comando per dare assoluta precedenza a "
La forma dell'acqua", ma rimane in veste di produttore e consegna la regia a Steven S. DeKnight.
C'era curiosità per questo sequel. Si cercava di capire se "La Rivolta" potesse soddisfare le aspettative, non eguagliando, ma perlomeno aspirando al risultato deltoriano negli intenti e inverdire una Hollywood satura e reiterante nelle saghe da botteghino come
"Transformers
" o
"Fast ‘n' Furious", con l'aggiunta della freschezza di uno
showrunner di mestiere come DeKnight (
Buffy,
Spartacus) qui al suo esordio sul minutaggio lungo. DeKnight non è Del Toro, semicitando il film, e non sarebbe più sbagliato aspettarselo. Il suo è un altro film, un altro modo di catturare il movimento e di impostare la messa in scena: scordatevi la Shangai al neon retró o la fisicità di modellini e CGI impastati in un gusto decadente e dimesso. Il digitale è costantemente in scena, alla luce del sole e saturo di dettagli; laddove "
Pacific Rim" amava nascondere e dare risalto al colore saturo, "La Rivolta" si mostra alla luce del sole. Questo suo mostrarsi si traduce anche in sezioni d'azione in
slow motion che esaltano la performance ma deprezzano la precisione meccanica, quasi naturale, del concetto di robot realistico deltoriano. La scelta di DeKnight non può dirsi sbagliata perché confeziona un pacchetto visivo e ludico da dieci in pagella, privo di sbavature come di guizzi. Peccato che il mercato abbia, a oggi, il ricordo della saga delle macchine aliene di Michael Bay, il confronto con la quale è sterile, impari e degradante dato che in termini (unicamente) visivi i Transformers ha pochi rivali. DeKnight comunque persegue la ricerca di intelligibilità degli scontri seppur con dinamiche ipercinetiche che cancellano l'epica per allinearsi ai toni divertiti della sceneggiatura.
Il processo di scrittura passò inizialmente tra le mani di Trevis Beacham ("
Scontro tra titani") per poi essere completamente riadattata da più autori ma a farsi sentire è soprattutto la penna di T.S. Nowlin avvezza alle dinamiche
teen della
Maze Runner saga. La breccia è chiusa da dieci anni e i pericoli arrivano da
Jeager illegali; il drift (il legame mentale tra piloti) è obsoleto e instabile, meglio ripiegare su un controllo da remoto e lasciare il passo alle nuove tecnologie fornite da capitali cinesi, gli stessi che hanno acquisito Legendary Pictures. Tematiche mature che imbottiscono quel tanto che basta la narrazione "scientifica" ma, accorpate alla natura
young adult sciatta del gruppo di reclute in addestramento, si sacrificano irrimediabilmente. È un universo narrativo in cui, se hai abbastanza cuore e passione, puoi costruirti un piccolo robot in casa. E può anche andare bene, visti i didascalismi di cui vive il titolo, ma quelli del primo film erano impostati secondo una mitizzazione consapevole, epici fino a diventare parossistici nel loro machismo. Qui il gioco alla ripetizione di certe dinamiche militari ha il mentone di Scott Eastwood e le battute di John Boyega (una riproposizione del Charlie Hunnam che fu ma più cazzona), evitando, per sua sfortuna, la forza climatica crescente dei rapporti umani. Senza girarci troppo intorno, in "Pacific Rim - La rivolta" si parla, e anche troppo, finendo per dilatare i tempi mentre si rimane in attesa delle botte. L'amalgama che Del Toro era stato in grado di creare non era solamente quello tra momenti di stasi e d'azione, ma anche quello in cui lo schermo era condiviso da piloti e robot quali unica entità. Il montaggio suggerisce come i
mecha siano semplici mezzi, avatar meccanici da pilotare e non da domare.
Va riconosciuto al titolo un'ultima mezz'ora di carattere e a comunicarcelo è il riff metall(urg)ico composto da Ramin Djawadi, stile
Rage Against the Machine, momento nel quale monta la frenesia da
monster movie in una corsa esponenziale. Il fascino dei
kaiju, quegli esseri che negli anni Trenta in Giappone dovettero sottomettersi ai limiti tecnici di rappresentazione del cinema, aumenta con la stazza degli stessi. DeKnight ricalca la
royal rumble conclusiva del predecessore ed esagera in proporzioni e numero di elementi. Manca la verticalità del "
Godzilla" di Gareth Edwards in grado di tendere come elastici le proporzioni e far uscire dai bordi l'immagine del mostro, ma ne guadagna lo spettacolo che converge nel tradizionale finale esasperato tra le nevi del Monte Fuji, nella patria natale dei
kaiju-eiga. Ludico e televisivo; scontato e privo del fascino del cinema.