Tornare a raccontare storie di mafia giapponese, cosa che in passato gli era stata congeniale, dopo anni passati ad analizzare il suo personaggio ("
Takeshis'"), il proprio cinema ("
Glory to the film maker!") e il ruolo dell'artista nella società ("
Achille e la tartaruga") doveva essere un modo per Takeshi Kitano per cambiare registro. Il regista di "Sonatine" ha negli ultimi tempi gettato la maschera, dichiarando la propria crisi e facendone punto di svolta per una riflessione generale sul suo cinema, divertendosi a destrutturarlo e demistificarlo.
Questo
yakuza-eiga scritto dallo stesso regista che omaggia le lotte senza codice d'onore di Kinji Fukasaku è nei fatti un'opera incollocabile nel suo percorso autoriale. "Brothers", che pure aveva diviso, aveva degli elementi di continuità come i rapporti di leale fratellanza tra i giapponesi e i giovani gangster americani, la violenza compassata tipica di Kitano, oltre all'interessante mescolanza linguistica. "Autoreiji" è un film dalla durezza granitica, che analizza le dinamiche della yakuza del nuovo millennio alle prese con il cambio generazionale, dove i "piccoli yakuza" soccombono di fronte ai piani orditi dai padrini, che scatenano una guerra per il dominio sul territorio. E' quello che succede a Otomo ("Beat" Takeshi), il quale, agli ordini del suo padrino Ikegami, iniziando da piccoli contrasti, scatena una lotta intestina col boss Murase. In verità, sono tutti burattini nelle mani del presidente Mr. Chairman che vuole fare piazza pulita, senza rendersi conto, a sua volta, di chi alleva in casa sua.
Lo sguardo di Kitano, come mai prima d'ora, si mostra algido, privo di empatia verso personaggi che studiano piani solo per fare le scarpe all'avversario: lo stesso Otomo pur essendo la cosa più
kitaniana del film, ovvero la figura dello yakuza di seconda categoria che tiene fede a un codice ormai sepolto ("Questa cosa del mignolo tagliato è superata. Non vale niente." affermerà secco Kato) è un personaggio a cui l'autore non lascia nemmeno una fine onorevole. E' naturale, dunque, che un'opera basata essenzialmente sulle dinamiche e sulle strutture gerarchiche caratterizzi personaggi che si limitano a funzionare, per portare avanti quell'effetto domino che si concretizzerà nell'impennata finale: gli ultimi venti minuti sono un susseguirsi di omicidi, dai più cruenti ai più fantasiosi, uno spietato gioco al massacro. La macchina da presa coi suoi movimenti fluidi s'insinua in questi meccanismi e ricorda non poco la lotta per la successione della Triade raccontata magnificamente nel dittico di "
Election" dell'hongkonghese Johnnie To.
E' molto lontano il Kitano delle estasi di violenza, visto che in "Outrage" ogni efferatezza è mostrata nella sua lucida cattiveria, e il colore dominante, persino nelle sequenze notturne dove solitamente dominava il blu, è il nero: carrozzerie, vestiti, atmosfere, tutto è lucidamente cupo. Anche la colonna sonora di Keiichi Suzuki con le sue composizioni sintetiche e pulsanti contribuisce a quest'effetto.
Non serve a niente continuare a chiedersi se il cinema di Takeshi Kitano volerà alto come aveva fatto negli anni '90, dei quali è uno degli autori-simbolo, piuttosto è ancora da capire se un'opera come "Outrage" rappresenti l'inizio di un nuovo
mood, oppure si tratti di un divertito "run for cover": il sottotiolo inglese recita "a survival game" un gioco di sopravvivenza e l'anima ludica (e nichilista) del Kitano della trilogia del suicidio sembra ancora persistere.
Fatto sta che il quindicesimo lungometraggio di Takeshi Kitano, vuoi anche per l'argomento abbastanza popolare, si sia rivelato piuttosto remunerativo tanto da far firmare il regista per un sequel che è già in pre-produzione. Forse proprio il secondo capitolo ci farà capire meglio la direzione che sta prendendo Kitano, magari portandoci a (ri)vedere questo "Outrage" sotto una luce diversa.
21/03/2011