Se si ricercano le origini dell'uomo europeo si vedrà che la sua matrice culturale più profonda, il suo
principium individuationis, nonché la sua prima grande narrazione epica risiedono nell'eroe omerico e così la storia dell'Europa, assieme alla cultura che ne deriva, dovranno sempre fare i conti con questa loro origine, con il modello dell'uomo eroico e invincibile, con il divo Achille che di tale cultura è il padre e l'ideale punto di arrivo. La storia europea (almeno fino alla Grande Guerra, che di questa società e dei suoi ideali rappresenta il tracollo) prima che una storia di uomini è una storia di re, di sovrani, di imperatori, di papi, di epigoni più o meno feroci dell'iroso figlio di Peleo.
Al contrario la storia americana è una storia fatta di presidenti, di collettività anziché di individui e dove l'individuo stesso è inserito in una comunità di simili e di uguali: nessuna discendenza divina, nessuna invincibilità guerriera. Se l'Europa è la tirannide napoleonica, l'America è la democrazia di Lincoln; Se l'Europa ha in Achille, in Ulisse e nelle grandi narrazioni mitiche il proprio fondamento, l'America ce l'ha nei romanzi di Melville, di Twain e di Hawthorne, i cui protagonisti sono molto spesso gente comune e le cui storie sono spesso storie del quotidiano.
Il cinema di Clint Eastwood allora, come frammento del grande mosaico del cinema americano e, più in generale, della cultura americana, porta avanti esattamente questo stesso discorso. La ricerca dell'eroe si compie tra la gente comune anziché tra i versi dei poemi epici e delle narrazioni fantastiche e se recentemente quest'aspetto è stato evidenziato con maggiore attenzione all'interno dei suoi film (in una linea immaginaria che collega quest'ultimo "Attacco al treno" con i precedenti "
Sully" e "
American Sniper") il motivo è probabilmente da ricercare nei risvolti populistici e demagogici dell'attuale politica americana, di cui per altro Eastwood è un esplicito sostenitore. Se scaviamo più indietro nella sua filmografia ci accorgeremo però che questa fenomenologia dell'uomo comune gli è tutt'altro che nuova, basti pensare al suo ultimo grande capolavoro: "
Gran Torino". Eastwood parla di uomini ordinari, la cui audacia eroica è spesso sostituita da una morale in bilico tra il bene e il male (non è questo il caso), il cui superomismo è sacrificato in favore di un più apprezzabile realismo, con cui lo spettatore è chiamato a empatizzare.
Ed è proprio sul piano della realtà e della sua rappresentazione che il discorso sull'ultimo tratto della lunga filmografia eastwoodiana si fa interessante e che quest'ultimo "Ore 15:17 - Attacco al treno" riveste - per lo meno nella sua concezione teorica - un ruolo centrale.
Sembra che il regista de "
Gli spietati" stia infatti ricercando un sempre maggior avvicinamento tra il suo cinema e la realtà, in primo luogo tramite la scelta di storie vere quali soggetti per le proprie narrazioni. Tuttavia se ci si fermasse a questo livello superficiale, il discorso non sarebbe rilevante come invece è.
È chiaro che il meccanismo primitivo e centrale del cinema è sempre stato quello di istituire un effetto di realtà. Il primo "trucco" che esso utilizza, è quello di rappresentare (e soprattutto di ri-presentare) un evento che ci appare dunque come reale.
Il cinema contemporaneo però sembra continuamente ricercare una maggiore validità dell'effetto speciale e se da un lato, tra green-screen e motion-capture, ne aumenta la credibilità, dall'altro lato accresce la propria falsità, tanto che lo spettatore finisce per non assistere più ora alla riproduzione illusoria (cinematografica) di un qualcosa che però deve aver avuto una propria concretezza reale, ma si trova davanti a una doppia illusione.
Di fronte a questa tendenza contemporanea all'abuso di effetti speciali, Eastwood sembra rispondere muovendosi in direzione contraria e, non potendo rendere reale l'illusione del movimento e della presenza (ovvero l'illusione del cinema), cerca tuttavia di dare maggiore realtà possibile a ciò che viene filmato, tenta di dare alle proprie immagini una maggiore aderenza possibile al fatto reale, avvicinandosi alla ripresa documentaristica, ma mantenendo gli stilemi propri di un certo tipo di cinema di genere.
Ciò avviene in primo luogo tramite l'utilizzo di filmati di repertorio, inseriti in mezzo a riprese realizzate a posteriori: come già era stato per il finale di "
American Sniper", l'ultima sequenza di "Attacco al treno", che vede il presidente francese premiare i tre protagonisti delle vicende, riporta sullo schermo la reale cerimonia avvenuta a seguito della scampata strage nel 2015, filmata dalle varie reti internazionali.
Ma rispetto ad "American Sniper" Eastwood compie qui un ulteriore passo in questa direzione, utilizzando come attori i veri protagonisti di quelle vicende, aumentando così il livello di realtà presente sullo schermo e rinunciando al medium dell'interprete professionista. Nella buona gestione di un cast di non addetti ai lavori sta il maggior merito di un'opera che, se ci si discosta dal piano teorico e si passa a esaminare la modalità di rappresentazione, inizia a mostrare le sue numerose difficoltà.
Il problema più evidente sta probabilmente nel soggetto, di difficile sviluppo dal momento che la vicenda centrale occupa una porzione ristrettissima della storia. Per riempire la durata del lungometraggio si sceglie così di andare a ritroso nelle vicende dei protagonisti, ma se la prima parte, nel presentare l'infanzia dei due futuri militari, cade presto in una becera retorica militarista e in una caratterizzazione dei personaggi tra le peggiori del cinema di Eastwood, la parte centrale, che ripercorre le tappe del viaggio europeo dei tre amici, fino alla partenza per Parigi, è spoglia di qualsiasi fine narrativo o contenutistico e si limita a soddisfare il desiderio esotico del pubblico in Patria. A poco servono gli sparuti flash-forward che anticipano le scene dell'attentato, il cui inserimento nella narrazione non sembra motivato se non dal fatto di ricordarci ciò che di lì a poco dovrà succedere.
In tutto ciò la regia, che sembra riprendersi solo nelle ultime sequenze, rimane più che mai piatta e scolastica, priva di idee o di soluzioni stilistiche interessanti. Sembra quasi strano che dietro alla macchina da presa si nasconda lo stesso occhio che poco più di un anno fa aveva filmato quel perfetto ammaraggio sul fiume Hudson in "
Sully".
Anche la caratterizzazione dei personaggi è passibile di critica, a partire dalla spiritualità forzata con cui viene rivestita l'azione eroica, la cui realizzazione sembra destinata da un volere più alto, da un Bene più elevato che si vuole perseguire a tutti i costi senza averne chiari i contorni. Diverse scene risultano pervase da un senso di missione religiosa che può ricordare per certi versi "
La battaglia di Hacksaw Ridge", con la differenza che nel film di Gibson l'elemento religioso rivestiva un ruolo centrale e si lasciava spazio all'elaborazione del rapporto personale e intimo del protagonista con la fede. Qui invece la patina di misticismo che riveste alcuni dialoghi non è supportata da un sufficiente approfondimento caratteriale dei personaggi e sembra piuttosto il residuo di una rigidissima educazione subita dai giovani protagonisti ai tempi dell'infanzia. Si intravede soltanto, si intuisce, si legge tra le righe, un tentativo di critica al bigottismo di certe istituzioni in contrapposizione a una spiritualità personale, che si rivolge al Bene senza passare per il dogmatismo. Ma lo script risulta troppo debole per poter portar avanti un discorso di questo tipo e i pochi spunti si perdono così per strada, rimanendo irrisolti.
Sono ahimè troppi gli errori per non affermare che "Ore 15:17 - Attacco al treno" rappresenta una caduta in basso nella decennale carriera di Clint Eastwood. Bisogna però necessariamente riconoscere a questo grande regista americano un coraggio artistico e una capacità di sperimentare e osare che pochi cineasti contemporanei hanno saputo dimostrare e, in questa prospettiva, è possibile perdonargli qualche passo falso.