In cosa si sostanzi il cinema di Sofia Coppola – quali ne siano i motivi, le forme, i limiti – è fatto noto. Assai più complesso, invece, è tentare una enunciazione chiara e distinta della sua estetica, che, o per penuria di rigore teorico, o a causa di certe contraddizioni implicite, resta affidata a un contenuto e a una tecnica, piuttosto che a una inclinazione dello sguardo. "L’inganno", in particolare, rifacimento del memorabile film di Don Siegel "La notte brava del soldato Jonathan", denunciava, tra anni fa, con la sua malagrazia, i limiti di una scrittura, che nel tentativo di affrancarsi dal solito, esile raccontino e dal consueto avvicendarsi di volti attoriali – nel tentativo, insomma, di rinvigorire le prospettive della propria arte – finiva poi col ribadirne la grandezza dei limiti. Nel cinema della Coppola ogni cosa è sacrificabile all’eleganza delle forme, alla squisitezza degli arredi, alla ricchezza dei fondali, siano essi naturalistici o metropolitani. L’intreccio è nulla, la giusta angolatura di un profilo d’automobile, tutto. Da ciò l’audace fallimento di quegli esiti – "L’inganno", fra questi – in cui all’oleografia si sia provato ad affiancare una scrittura e, dunque, un ritmo, un racconto, dei personaggi.
Dove trovare, infine, i suoi risultati più alti? Nella pratica di un cinema quotidiano, ma di una quotidianità aristocratica, in cui si ripetano le piccole storie di amori, tradimenti e difficili relazioni parentali, mentre la macchina da presa scopre nuovi punti di luce in quelle superfici di avorio scintillante che popolano la messa in scena, che sono la messa in scena, malinconica, di un mondo. Un cinema, dunque, che è sempre quella cosa lì e che si produce nella ripetizione, come quello di Woody Allen, ma dove alle nevrosi newyorkesi, alle arguzie in punta di penna, alle cure per l’intreccio si sostituisce il gusto per il buon cibo, gli attici finestrati, i vernissage avanguardisti.
Si prenda questo "On the Rocks", operetta minimale, scandita da un soggetto che, scritto per esteso, occuperebbe appena un post-it, in cui si scontrano un padre assai brillante e amabilmente godereccio, e una figlia incerta del proprio talento, che ha la malaugurata idea di confessare al genitore i suoi dubbi sulla fedeltà del marito. Tralasciando i sospetti sull’eventuale fedifrago, l’idea che la Coppola, figlia di tanto padre, vada imbastendo l’ennesima seduta di autoanalisi di fronte alla macchina da presa non è poi peregrina. Ma se di autoanalisi si tratta, non sarà certo un divanetto dal tessuto sdrucito ad accogliere questo tentativo di ricognizione di sé e dei propri demoni, quanto piuttosto i sedili di una Giulietta spider e, perché no?, con accanto del buon caviale e un Krug del 98. Tuttavia, come avviene negli esiti migliori del suo cinema, in questa sequela di conflitti interiori di una madre alto-borghese segnata dall’ossessione per un padre geniale e ingombrante, in questo raffinatissimo catalogo del nulla – quel nulla che in "Somewhere" ci inquietava con la sua dilatazione – non si va mai oltre l’enunciazione, se non per gettare un sorriso malinconico su questo trionfo di superfici, ove persino il Cinema – superficie per eccellenza – entra solo in forma di eleganza, quando Bill Murray offre alla figlia un dessert al tavolo in cui Humphrey Bogart chiese la mano a Lauren Bacall.
Si diceva della cattiva scrittura de "L’inganno". Così questo "On the Rocks" non manca di sottolineare apertamente la natura di MacGuffin dello script, ove la Coppola, come i più pedestri scrittori di gialli o noir, sceglie di amplificare l’ambiguità di gesti e situazioni, in barba a ogni compattezza narrativa, solo perché l’intreccio possa procedere senza intoppi sino alla scena che riconosciamo come la vera ragione del film, quella in cui gusto, eleganza, nostalgia, spensieratezza e screwball comedy si intrecciano in una corsa a perdifiato per le strade notturne di una Manhattan immersa nelle luci dei semafori, dei lampioni, delle insegne. Un movimento che neppure una solerte pattuglia potrà arrestare, rapita anch’essa dal fascino bonario e amicale del sempre ottimo Bill Murray. E proprio di lui, della sua mimica, della sua naturale eleganza vorremmo dire, se non fosse, alfine, un rimarcare l’ovvio. Si è detto che Murray interpreti sempre lo stesso personaggio. Senza dubbio, cionondimeno non possiamo negare il piacere di ritrovare ancora una volta sullo schermo la sua gestualità sommessa e il garbo sornione con cui si presenta, primattore, a film inoltrato, abbassando il finestrino dell’auto come fosse un sipario all’inverso, mentre la colonna sonora rigira in chiave comico-burlesca le note dell’aria più celebre del Don Giovanni di Mozart: “Madamina, il catalogo è questo delle belle che amò il padron mio…”.
Ancora una volta gira a vuoto, il cinema di Sofia Coppola, come la Ferrari che nell’incipit di "Somewhere" tracciava cerchi a non finire sulla sabbia, ma su questo vuoto di segni e forme, che rovescia in un colpo i fasti paterni e rinuncia a una vera introspezione, costruisce in piena coscienza l’itinerario del suo cinema. Un cinema impalpabile, di sublime leggerezza, svelto come certi brani di Erik Satie, che arreda la nostra immaginazione di spettatori come una chaise longue un salotto signorile.
Cinéma d’ameublement, ma di grande classe.
cast:
Bill Murray, Rashida Jones, Marlon Wayans, Jenny Slate, Jessica Henwick
regia:
Sofia Coppola
titolo originale:
On the Rocks
distribuzione:
Apple TV+
durata:
96'
produzione:
American Zoetrope
sceneggiatura:
Sofia Coppola
fotografia:
Philippe Le Sourd
scenografie:
Amy Beth Silver
montaggio:
Sarah Flack
costumi:
Stacey Battat
musiche:
Phoenix