Dopo i primi minuti il nuovo film di Erik Matti, presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e ora proiettato in apertura al Far East Film Festival, introduce due presunti protagonisti che non potrebbero essere più diversi, ovvero il serio e integerrimo (ma palesemente con qualcosa da nascondere) giornalista Arnel e il canzonatorio e corrotto speaker Sisoy (la Coppa Volpi John Arcilla), uniti solo da una decennale amicizia e dalla gestione del quotidiano La Paz News, recentemente in crisi a causa del boicottaggio pubblicitario fomentato dal potente sindaco Manong Pedring Eusebio, di cui è rimasto uno dei pochissimi oppositori. Ma non passano neanche dieci minuti e il regista filippino inizia a dimostrare che il suo affresco delle Filippine contemporanee ha smisurate ambizioni, cominciando a costruire un complesso sistema di personaggi, composto dalle famiglie dei protagonisti, i colleghi del giornale, la famiglia Eusebio e le gang collegate, nonché una improbabile compagnia di criminali di bassa lega attualmente in carcere, e inserire il tutto in un turbine di eventi, scontri e soprattutto canzoni di ogni tipo. E avanti così per 209 minuti, mentre generi, registri e stilemi si mescolano e sovrappongono in una danza sfrenata e non priva di svirgolate, come i volgari party in cui in più occasioni i personaggi si trovano immersi.
"On the Job: The Missing 8" si presenta come una sorta di sequel informale del film del 2013 "On the Job", un gangster movie iperbolico e divertente, i cui punti di forza (così come forse le debolezze) vengono esaltati in questo strabordante secondo capitolo, a quale va subito riconosciuto di riuscire a gestire con considerevole equilibrio il profluvio di linee narrative senza mai annoiare lungo le sue tre ore e mezza. L’origine paratelevisiva (il film è una co-produzione HBO Asia Originals, che ha poi trasformato i due "On the Job" in un’unica miniserie tv) rende comprensibile la scelta di una durata spropositata ma non viene mai utilizzata per giustificare una certa tendenza alla ridondanza, la quale invece si sublima nell’iperbolico e cadenzato accumulo di personaggi, situazioni e colpi di scena di cui si scriveva sopra. Questa caratteristica si esacerba a partire dalla sparizione degli otto eponimi, ovvero i giornalisti del La Paz News, compreso il direttore Arnel e il giovanissimo figlio, un evento la cui dinamica è chiara solo agli spettatori, divenendo per i personaggi il pretesto dello sviluppo crime della trama che condurrà alla non banale redenzione di Sisoy, fino alla prevedibile scoperta di chi sia il colpevole.
La succitata sequenza diviene una sorta di sineddoche dell’intera pellicola: un momento tragico la cui violenza viene prima occultata e poi enfatizzata dall’utilizzo della colonna sonora pop, non di rado stucchevole, al culmine di un montaggio alternato in cui la musica di una sequenza si applica alle immagini dell’altra. Niente di troppo originale, anzi, ma l’abilità del regista sta nel renderlo progressivamente un tratto stilistico della pellicola, una rappresentazione estetica della stratificazione narrativa che contraddistingue l’epopea crime-gangster-politica di Erik Matti. Per quanto concerne invece la trama, essa si dipana mescolando svariati generi, passando dal dramma giornalistico e dal thriller al gangster movie e al prison movie, fino al film politico e al melodramma, producendo un cocktail di generi che può essere indigeribile ma che, diluito nel corso di tre ore e mezza, si fa gustare, pur non mancando note indelicate. Questa ricerca dell’accumulo e della sovrapposizione si sostanzia anche a livello visivo in un profluvio di split screen, materiali d’archivio e inserti digitali che rappresentano le svariate reazioni del pubblico social alle indagini dei protagonisti, così come il modo in cui quest’ultime si svolgono. Una tale abbondanza può facilmente stuccare, come possono farlo le onnipresenti canzoni di ogni genere (dal pop da classifica alla musica folk filippina, passando per una cover di "Bella ciao" e varia musica sinfonica), ma va dato a Matti di aver sposato con rara dedizione l’accumulo come chiave interpretativa della propria estetica.
Pur con enormi differenze di productive value e di poetica non risulta difficile vedere i punti di contatto tra il cinema di Erik Matti e quello di Martin Scorsese, soprattutto la barocca produzione degli anni 90, esemplificata da un altro film monstre come "Casinò", con cui "The Missing 8" condivide l’adozione del long take non solo come strumento per pedinare i personaggi ma soprattutto per evidenziare i rapporti fra loro e di conseguenza rendere visibile il dipanarsi del racconto (notevole al riguardo il primo "tour" nell’affollatissimo carcere di La Paz). Con il regista statunitense Matti condivide anche la tendenza all’uso dell’iperbole per trascendere il realismo in una commistione fra verosimiglianza ed estetizzazione carica di simbolismi, pur essendo il suo controllo su questo gioco funambolico meno solido di quello del maestro newyorkese. Ciononostante "The Missing 8" resta un film, di genere, saldamente filippino, e non solo per l’abbondanza di hit locali nella colonna sonora e la presenza di certi cliché narrativi e visivi di questa rigogliosa cinematografia, come il frequente ricorso a integrazioni digitali che saturano lo spazio dello schermo, ma soprattutto per la centralità che ha la storia del paese asiatico nella comprensione della pellicola, e il tono militante che questa finisce per assumere.
Tra intrighi politici per assumere il controllo della città di La Paz e schermaglie di più alto livello per ottenere una candidatura da vicepresidente della Repubblica si vedono difatti le differenze tra le diverse generazioni dei governanti filippini. Così si passa dai dinosauri al potere dai tempi della crudele dittatura di Marcos ai più recenti gangster-sindaci che, alla maniera dell’attuale presidente del paese Rodrigo Duterte, hanno fatto della spietatezza nella war on drugs e del carisma personale la moneta sonante della politica locale e non solo (La Paz è palesemente la versione di fiction della Davao perla delle Filippine e roccaforte politica dei Duterte), per arrivare ai machiavellici leader della nuova generazione, democratici e progressisti a parole mentre rafforzano il potere della famiglia di provenienza con i soliti inganni. La principale costante in tutto ciò? La persecuzione o la corruzione dei giornalisti, vittime di un paese dalla vita politica e culturale ferocissima e al contempo loro responsabili, martiri spesso dalle mani comunque sporche, come le indagini di Sisoy e della sua integerrima editor tristemente dimostrano.
Così come i protagonisti scoprono nella loro lunga catabasi nei lati più oscuri della Storia e della politica delle Filippine che tutti i benefattori sono i mattatori di qualcun altro e che i paladini della libertà e della verità hanno i loro scheletri nell’armadio (c’è un certo sarcasmo in questo, un elemento centrale seppur spesso sottotraccia nel cinema di Matti, data l’importanza che ha nell’altra pellicola di Matti proiettata al FEFF, l’horror a episodi "Rabid"), gli spettatori si rendono conto che non tutto torna perfettamente in "The Missing 8", una costruzione probabilmente troppo grande e complessa per essere facilmente gestibile senza svarioni. L’unica via di fuga, sia per i protagonisti sia per gli spettatori, è quindi un finale iperbolico che, assumendo toni quasi surreali, permette a Sisoy di mettere alla berlina le malefatte del clan Eusebio e di sopravvivere alla rappresaglia grazie in primis alla sua capacità di porsi come un elemento di congiunzione fra mondi diversi, fra quello del giornalismo libero e quello della propaganda di regime, fra quello della legge e quello della criminalità. Un lieto fine a questo punto può parere una caduta di stile ma si deve ammettere che sia coerente col cinema del cineasta filippino: in un mondo privo di punti fissi e in preda al nichilismo dove si riconosce solo al singolo individuo la capacità di poter cambiare sé stesso e forse la realtà in cui vive, la (doppia) fuga, zoppicanti e crivellati di proiettili, dopo aver sterminato il gruppo composto da poliziotti e da criminali inviato a ucciderli, pare un coerente punto d’arrivo. Ridondante, certo, ma questa è in fin dei conti l’estetica di Erik Matti.
cast:
John Arcilla, Dennis Trillo, Christopher De Leon, Dante Rivero, Lotlot De Leon, Andrea Brillantes, Isabelle De Leon, Leo Martinez, Wendell Ramos, Agot Isidro, Joey Marquez, Eric Fructoso, Vandolph Quizon, Sol Cruz, Lao Rodriguez
regia:
Erik Matti
durata:
209'
produzione:
Reality MM Studios, Globe Studios
sceneggiatura:
Michiko Yamamoto
fotografia:
Neil Derrick Bion
scenografie:
Roma Regala, Michael Español
montaggio:
Jay Halili
musiche:
Erwin Romulo, Malek Lopez, Arvin Nogueras