Kevin Kline torna a Parigi quasi vent'anni dopo il "bacio francese" che si era duramente conquistato nella rocambolesca storia d'amore con Meg Ryan. Lo avevamo lasciato trionfatore, innamorato e pronto per coltivare la sua vigna e il suo sogno. Lo ritroviamo nei panni di Mathias, ormai sessantenne, pluridivorziato e di nuovo con le tasche vuote.
L'atmosfera di "My Old Lady" è ben lontana dallo spassoso "menage a quatre" del French Kiss di Kasdan. Horovitz resta sempre sul filo tra commedia e dramma, la prima parte del film è più leggera, ironica, ma prepara il terreno agli sviluppi che scivoleranno la commedia in risvolti drammatici, delineando con crescente precisione la psicologia dei personaggi, le loro fragilità e i legami nascosti che li tengono insieme.
Mathias è un uomo fallito, che con la morte del padre ha appena ereditato un appartamento a Parigi. L'odio verso il padre non gli impedisce di cogliere un'opportunità che lo salverebbe dalla bancarotta. Mathias vola a Parigi per vendere l'appartamento ma suo padre sembra avergli taciuto un dettaglio di non poco conto: Mathilde. Mathilde Girard (Maggie Smith) è una vecchia signora inglese di novantadue anni che occupa l'appartamento in virtù del "viager", un istituto tipico francese (è rimasto soltanto in Francia) che è una forma di vitalizio ipotecario, nella pratica assimilabile alla nostra nuda proprietà. In poche parole Mathias, per diventare proprietario, dovrà aspettare che Mmuoia. E nel frattempo dovrà pure mantenerla con un cospicuo assegno mensile.
Vien da chiedersi se il padre fosse stato un sadico fino all'ultimo respiro, o se invece.
Mathias affitta una stanza dell'immenso appartamento ma ovviamente non si rassegna, tenta l'offensiva alleandosi con Monsieur Lefebvre (Dominique Pinon) un agente immobiliare anch'egli interessato che la vendita dell'appartamento si perfezioni. La situazione è complicata da Chloé (Kristin Scott-Thomas) figlia di Mathilde, che fin da subito si mostra ostile nei confronti dell'intruso americano. Anche se a guardar bene, non può spettare che a lei il ruolo di mediatore tra le parti.
Horovitz è un commediografo di lunga carriera e numerosi successi. Il suo tardivo esordio cinematografico sembra più un esercizio di stile che un'ambizione, non c'è alcuna volontà di nascondere il teatro né tanto meno di rinnegarlo. La messa in scena è teatrale e molto lineare, con piani medi e primi piani che spostano l'attenzione sull'uno o l'altro personaggio. Marcatamente teatrale è la scenografia e il modo in cui spesso viene illuminata, come se fosse circondata dall'ombra. Le rare escursioni per le strade di Parigi, che pur ampliano il palcoscenico-appartamento, sono pause riflessive che servono a ribadire la scelta del luogo. Anche gli attori francesi tra cui spiccano Dominque Pinon ("Delicatessen", "
Il favoloso mondo di Amelie" e "Alien: la clonazione", di Jeunet; ma anche "Frantic" di Polanski, "La leggenda del santo bevitore" di Olmi, per dirne alcuni) e Stéphane Freiss ("
Hereafter" di Eastwood, "Munich" di Spielberg, "
Giù al Nord" di Boon) sono necessari più all'ambientazione che non alla sceneggiatura. Horovitz si affida invece totalmente al trio Kline, Smith, Scott-Thomas (tutti e tre con lunga esperienza di teatro) che si prendono a turno la ribalta e sulle spalle la riuscita del film.
La qualità assoluta e l'eleganza degli interpreti riempie più di un vuoto, ma restano comunque inutili lungaggini e cadute melodrammatiche. Il finale è accomodante e i titoli di coda riservano due "chicche" che ricordano ancora "French Kiss" e il tormentone della tour Eiffel che infine trovava pace. Qui invece, se aspettate un attimo prima di uscire, scoprirete cosa ne farà Mathias dell'appartamento e dove Lefebvre abbia imparato l'inglese.