La ragione e il comun denominatore direbbero: più l’essere umano si avvicina alla propria morte, più cerca di aggirarla. Più, l’uomo riflette sulla morte, sua e altrui, più ha difficoltà a vivere la vita. Ormai sono anni che lo si ripete: più Clint Eastwood invecchia, più il suo cinema diventa limpido, puro, sincero, maturo. Più invecchia, più lo spettro della morte permea le sue opere. Fino a colpire il suo personaggio, fuori e dentro lo schermo, nell’epilogo del definitivo “Gran Torino”. Poteva essere il film ultimo del Clint regista, oltre che dell’attore/personaggio, l’ultimo atto (di fede) verso l’arte cinematografica e la cultura dei nostri tempi, e invece no. Mai sottovalutare Eastwood che, pur fedele a se stesso, ha il coraggio delle sue idee, assorbite in mutazioni che lo rendono sempre diverso dai suoi lavori precedenti, eppur riconoscibilissimo, unico. Quello spettro mortuario, che a ben vedere aleggiava da sempre sull’eroe eastwoodiano (che sia esso un texano dagli occhi di ghiaccio o un genio della musica jazz), si espande su un terzetto di personaggi, su un collettivo, sul mondo intero.
Sfuggendo immediatamente sia alla possibilità di catastrofismo (l’incipit di grande impatto) che di thriller soprannaturale (il film è stato spacciato come tale, e alcuni spettatori si diranno delusi perché per tale lo prenderanno anche durante e dopo la visione), Eastwood incastrata ancora una volta la storia in un contesto realista, con al centro episodi reali o verosimili, spalmati in scala internazionale (lo tsunami che ha colpito il sud-est asiatico, l’attentato alla metropolitana londinese, o anche le difficoltà di un operaio a mantenere un umile posto di lavoro nella società contemporanea). Per scendere a patto con il film, non respingendolo a priori, bisogna proprio accettare le regole del gioco, ovvero dare per scontato che in uno scenario verosimile possa esistere un sensitivo efficiente, che possa verificarsi uno stato psico-fisico di vita dopo la morte e che tutto ciò possa coabitare con i piccoli e grandi problemi della vita quotidiana. E’ l’idea stessa che spiazza ma che, al contempo, dona commozione (perché autentica) a chi sa coglierla.
Si può imputare a “Hereafter” la solita girandola di personaggi le cui vite finiscono con l’incrociarsi (ma è una strada narrativa assolutamente nuova per Eastwood).
Si può storcere il naso per alcune presunte annotazioni stereotipate, ma quando si pensa al cuoco italiano di “Hereafter” (o alla famiglia di Maggie in “Million Dollar Baby”), bisognerebbe pensare al fatto che sono personaggi che impreziosiscono da sempre il grande cinema americano: da Ford a Wilder, da Hawks a Huston, la caratterizzazione di alcuni personaggi di contorno secondo canoni standardizzati e annotazioni spiritose è un bene nobile, che ha reso grande il più bello del cinema classico hollywoodiano. Si può contestare l’utilizzo di scorciatoie facili (Marcus che richiede un lettino di fianco al suo, per sentire vicino il fratellino scomparso), ignorando che oggigiorno la semplicità più diretta, ma comunque priva di retorica, dovrebbe essere un merito e non una colpa.
Si può, infine, storcere il naso per una storia, quella di Melanie, accennata e poi lasciata alla deriva, non accorgendosi che questa sfumatura rende la vicenda più struggente, inquietante, per nulla riconciliatoria, quindi devastante.
Un film sul qui e non sull’altrove, sull’impossibilità di trovare risposte razionali di fronte ai tragici eventi della vita (perché Jason viene mortalmente investito e Marcus non prende la metropolitana?), su tre vite, tre percorsi, tre solitudini, assolutamente eastwoodiane.
I sensi di colpa, le frustrazioni, i tormenti di George possono essere placati solo quando la mano che gli sarà posta nutrirà l’amore del e per il presente senza la paura per il futuro.
Affresco interiore, intimista e globale al tempo stesso, quello di Clint Eastwood è un cinema pessimista che sa però lasciare socchiusa la porta della speranza, questa volta contornando l’assunto con un alone quasi fiabesco, come esplicitamente suggerisce il fantasma di Dickens, che più volte ritorna in scena. Una figura che accompagna per mano i tre protagonisti del film (tre fantasmi, di cui un orfanello: tutto torna), portatori di una parabola umana moderna, ma con radici ancorate agli albori del sentimento umano.
George, Marie, Marcus, anime vaganti, non-morti che galleggiano alla disperata ricerca di un appiglio che possa condurli sulla via della rinascita.
Il qui per sfuggire all’altrove terreno.
Avviandosi verso il finale Eastwood agisce in contropiede: invece di sovraccaricare il corso degli eventi di un ritmo tonitruante, non solo evita le scene madri, ma sembra lasciare i suoi personaggi liberi da esigenze cinematografiche. Si muovono, si incontrano, si perdono, sognano, secondo i ritmi della vita. Una vita che deve fare i conti con piccoli e grandi dolori, ma che merita comunque di essere vissuta.
Una, due, tre, molte vite, che solo Clint Eastwood da dieci anni a questa parte ha saputo raccontare al cinema, con una partecipazione emotiva in totale simbiosi con i sentimenti più profondi nascosti nell’anima di chi ha il piacere di guardare e sentire il suo immortale cinema.
cast:
Matt Damon, Cécile de France, Bryce Dallas Howard, Frankie McLaren, George McLaren, Thierry Neuvic, Richard Kind, Jay Mohr, Steve Schirripa, Derek Jacobi
regia:
Clint Eastwood
titolo originale:
Hereafter
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
129'
produzione:
The Malpaso Productions # Kennedy/Marshall Company
sceneggiatura:
Peter Morgan
fotografia:
Tom Stern
scenografie:
James J. Murakami
montaggio:
Joel Cox, Gary D. Roach
costumi:
Deborah Hopper
musiche:
Clint Eastwood