drammatico | Usa (2024)
Foregone
Da diversi anni Paul Schrader, oggi 78enne, annuncia ogni suo nuovo lavoro come probabilmente l'ultimo. Nel 2022, le ripetute ospedalizzazioni da long covid l'hanno spinto a progettare un film che è una meditazione sulla morte, ispirandosi alle parole di Russell Banks, amico e scrittore da cui nel 1997 aveva tratto "Affliction" e al quale era stato diagnosticato un male incurabile. Nel 2023, poco dopo la morte di Banks, Schrader rivela che il suo prossimo film sarebbe stato "Oh, Canada", adattamento di "Foregone" ("I tradimenti" nella traduzione italiana).
Il romanzo di Banks ha come protagonista Leonard Fife, un anziano documentarista malato terminale, che accetta che due suoi ex studenti, Malcolm e Diana, ora sulla cresta dell'onda e vincitori di un Academy Award, realizzino un film-intervista che funga da summa della sua vita e da testamento artistico. Leo però non segue la scaletta di domande previste ma straparla a ruota libera volendo delineare un quadro veritiero della sua vita a partire dalla giovinezza negli Stati Uniti. Egli è infatti uno dei migliaia di americani renitenti alla leva che sono andati esuli in Canada, diventando un simbolo della protesta contro la guerra del Vietnam. Indagando le ragioni che l'hanno portato a trasferirsi in Canada, Leo Fife costruisce un atto di autoaccusa: non è, come si crede, un artista serio e politicamente impegnato, ma un codardo in fuga da sé stesso. La scrittura di Schrader è fedele al romanzo di Banks, seguendo un lavoro di adattamento che asciuga e condensa la narrazione mantenendo inalterati i nuclei tematici, la struttura temporale ondivaga e l'inaffidabilità del narratore.
L'ultima confessione
Paul Schrader è giunto tardi alla messa a punto di uno stile che sintetizzasse esperimenti e digressioni della sua discontinua carriera da regista e, da "First Reformed", si è attestato a una forma che sfrutta la snellezza del digitale per una messa in scena levigata, con pochi punti luce che, sagomando lo spazio, proiettano i fantasmi che tormentano i suoi protagonisti. Conclusa la trilogia dell'uomo in una stanza con "Il maestro giardiniere", lavoro più aperto alla risoluzione pacifica (col proprio sé e i propri peccati), "Oh, Canada - I tradimenti" sposta in avanti le lancette del tempo biologico dei suoi uomini domandandosi cosa accadrebbe se a personaggi come Julian Kay (Richard Gere in "American Gigolò") e William Tell (Oscar Isaac in "Il collezionista di carte") la vita o il fato non li obbligasse a pagare per le proprie colpe. Leonard Fife appartiene alla medesima categoria di antieroi schraderiani ma, giunto al termine della vita, sente di non essere stato toccato dalla Grazia. Allora la Grazia la ricerca, la pretende attraverso una pulsione autodistruttiva che, dissodando la propria esistenza, polverizzi l'immagine pubblica di uomo e artista integerrimo. La consueta tensione verso il martirio è tradotta da Schrader dall'austerità dell'intervista: a tal proposito, Malcolm precisa come la tecnica di ripresa adottata sia un omaggio a quella di cui proprio Fife è stato pioniere. Schrader tratta il "metodo Fife" descritto da Banks come la messa in scena di una confessione (o di una seduta di psicoterapia freudiana) e l'incipit del film è dedicato all'allestimento del set, all'interno della casa di Montréal dell'anziano regista. Fife è disposto a parlare della sua vita e del suo passato, seppellito sotto il peso di decenni di bugie e falsi miti, solo a una condizione: la presenza di Emma, la moglie. Il set è buio fuorché un unico riflettore puntato sul volto emaciato dell'uomo, che viene inquadrato da tre angolazioni diverse e, al contempo, vede sul monitor davanti a lui il viso di Malcolm o di Emma. In tal modo i volti sono mediati non dalla grata del confessionale ma dagli schermi attraverso i quali si può condividere la verità. Mentre tutti i presenti possono osservarlo, Fife è, nel medesimo spazio, al contempo vivo e già immagine filmata e pertanto imbalsamata per la posterità.
I passati
Gli anni che passano si depositano sui corpi, li modificano e li sfregiano. Leonard Fife è un animale morente che non vuole parlare della sua carriera da regista engagé di documentari che hanno denunciato scandali e analizzato questioni spinose dell'attualità e della storia sociale e politica canadese, come vorrebbero i suoi ex studenti che, per mezzo del loro film, immaginano Fife diventare un totem dell'arte canadese. Leonard vuole denudare la propria anima ammalata a partire dagli anni della giovinezza, quando è sbocciato e si è manifestato come venefico fiore infestante per sé e per le esistenze altrui. Schrader squaderna allora una combinazione di stili e formati differenti come non capitava dai tempi di "Mishima - Una vita in quattro capitoli", suo massimo capolavoro. Se Leo Fife nel presente è messo in scena con la religiosa austerità dell'ultimo Schrader, il passato è ricostruito per mezzo di una calda palette autunnale, la cui combinazione peach and mint ricorda i melò degli anni 50. L'anno decisivo della vita del protagonista è apparentemente il 1968 su cui si innestano ulteriori flashback in bianco e nero, riguardanti scene provenienti sia dal passato del giovane Leo, sia di quello adulto (che ha già compiuto la sua metamorfosi canadese in artista impegnato). Il flashback principale si addensa intorno alla viltà e all'irresponsabilità di un Leo precocemente al secondo matrimonio e prossimo ad addottorarsi. Sua moglie, Alice, aspetta il loro secondo figlio, ma sono decisi ad allontanarsi dall'influenza della facoltosa famiglia di lei e, a tal riguardo, Leo deve viaggiare per il Vermont per comprare la casa dove si trasferiranno, vicino a un piccolo e progressista college in cui andrà a insegnare. Le memorie di questo frangente si ramifica avanti e indietro nel tempo e il protagonista rivela come a quel tempo si fosse già rovinato la vita. Quale sia il peccato originale, o quali essi siano, resta il grande mistero di Fife che, scappando in Canada, si lascia alle spalle le velleità di accademico e quelle di scrittore, abbandona due mogli e due figli, passando anche per coraggioso rifugiato politico. In breve, il racconto di Fife è disarmonico, procede per segmenti posti in decalage da un montaggio non lineare: la voce fuori campo è peraltro un filtro che intorbidisce le acque in quanto Schrader trasforma il narratore esterno del romanzo nella voce del figlio Cornel, abbandonato da Leo quando era bambino. Questo prospettiva s'interseca a quella interna di Fife che ripensa al passato e al contempo commenta quanto sta accadendo. Ciò che viene messo in scena può essere sia il racconto crudelmente sincero di una vita, sia un'ulteriore mistificazione.
Rosebud
"Oh, Canada" che, nel romanzo, è il titolo del controverso documentario dedicato a Leo Fife sono anche le ultime parole proferite dal protagonista prima di spirare. Schrader cita esplicitamente la morte di Charles Foster Kane che, dicendo "Rosebud", apre l'indagine di "Quarto potere" mentre "Oh, Canada", in questo senso, la chiude. L'immagine del giovane Leo che passa il confine tra Stati Uniti e Canada, montata in parallelo con la morte dello stesso, salda quel concetto di soglia che innerva un film che si muove tra la vita e la morte, la verità e la menzogna, la vita ricordata e quella immaginata. L'esito finale è altamente stimolante anche perché il lavoro di Schrader possiede un certo grado di libertà formale, correndo rischi che si assumono sempre più spesso solo registi maturi e affermati. Va però ammesso che, rispetto al già citato "Mishima", il lavoro presente è meno sfaccettato e ricco, sia in termini di inventiva nella stilizzazione, sia in termini di budget: d'altronde, la carriera di quest'ultimo decennio in cui Schrader ha visto un inaudito rilancio è basata su micro-budget di produzioni indipendenti. E se è sin troppo facile accusare le canzoni dei Phosphorescent di essere più retoriche dell'elettrizzante score di Philip Glass, forse il limite maggiore di "Oh, Canada" è che la premessa concettuale sia sviluppata in modo troppo letterale senza divaricazioni tra detto e mostrato: basti, come esempio, la lezione di fotografia secondo Susan Sontag per la quale l'immagine è un memento mori che permette l'accesso all'immortalità. Restano dunque i nodi irrisolti, così come le ragioni di una generazione la cui smitizzazione si circoscrive all'intimità e alla coscienza individuale, mancando un po' l'altezza e il respiro del poema visivo. D'altro canto, è ammirevole la tenacia con cui Schrader continui a esplorare la sua idea di cinema con le limitate risorse a sua disposionze: qui lavora per disorientare non solo tramite la sovrapposizione dei segmenti di memoria del protagonista ma anche per la felice intuizione di alternare la presenza di Jacob Elordi con quella di Richard Gere nelle sequenze ambientate nel passato di Leo Fife. Così Elordi esce da una stanza e Gere vi rientra, sottolineando la distanza tra quelle che sono due persone distinte e, al contempo, la confusione nella ricollocazione mnesica.
Fife dice che la sua vita è diventata come quella di un personaggio di finzione: deprivato di futuro e senza passato, ha smesso di esistere come persona reale. La confessione diventa quindi anche un modo per riappropriarsi di sé stesso ricomponendo la propria immagine reale presso gli altri. Alla fine non è importante il racconto di per sé, che forse riempie i vuoti di memoria dovuti alla malattia cucendo insieme storie e frammenti in modo non necessariamente coerente, ma il fatto che la confessione venga immortalata da una macchina da presa. E per il tentativo disperato di essere assolto per le proprie mancanze e per la propria codardia, la macchina da presa assume la funzione di vitreo sacerdote che assiste fino alla fine: non c'è estrema unzione, ci sono le ultime parole e le ultime immagini in cui il vecchio e il giovane Leo Fife idealmente si sovrappongono. Del suo mistero sfocato resta solo una suggestione.
cast:
Richard Gere, Jacob Elordi, Uma Thurman, Michael Imperioli, Victoria Hill, Penelope Mitchell, Kristine Froseth, Jake Weary
regia:
Paul Schrader
titolo originale:
Oh, Canada
distribuzione:
Be Water - Medusa Film
durata:
94'
produzione:
Northern Lights, Vested Interest, Ottocento Films, Lefthome
sceneggiatura:
Paul Schrader
fotografia:
Andrew Wonder
scenografie:
Deborah Jensen
montaggio:
Benjamin Rodriguez Jr.
costumi:
Aubrey Laufer
musiche:
Phosphorescent