La fantascienza sta tornando in sala, ormai è tendenza evidente e salutare, oseremo dire. Vien da sé: in un momento di forte incertezza nasce la necessità di votarsi a nuove utopie concrete. Valvola di sfogo e di ri-immaginazione del presente, la sci-fi di quest'epoca di confine staglia l'individuo su uno scenario totalizzante, esplorando ulteriormente le crepe e i fantasmi dell'attualità fuori dai percorsi obbligati della costruzione del racconto "tradizionale". Anche "Oblivion", pur palesando la sua identità "entertainment", è un tentativo in questa direzione, diluito da una confezione perfettibile e dai continui riclicli e ricorsi.
Anno 2070: la Terra è reduce da una guerra di 60 anni con invasori alieni chiamati Scavengers, che hanno occupato il pianeta. La guerra è vinta, ma l'umanità si è dovuta rifugiare su Titano ed è costretta a recuperare le ultime risorse della Terra per rendere abitabile la sua nuova casa. Per questo, il tecnico Jack Harper è in missione solitaria sul pianeta: lavora e vive su una torre in mezzo alle nuvole con la sola compagnia della sua collega e amante Victoria, con l'unico compito di salvaguardare e distruggere le ultime sacche di resistenza prima dell'abbandono. Tutto cambia quando una vecchia astronave terrestre lanciata nell'anno dell'invasione precipita sul pianeta: l'unica sopravvissuta è una donna che continua a tormentare i sogni di Jack.
Reduce da "
TRON: Legacy", Joseph Kosinski porta al cinema una sua
graphic novel mai pubblicata, confermando, poco più che reduce dall'esordio dietro la macchina da presa, la tendenza a una regia molto stilizzata e costruita attorno a palette cromatiche "quadrate" - l'alienante schema bianco, grigio, azzurro, nero. Altrettanta coerenza anche nella descrizione di spazi e azioni: rarissimi i campi medi e lunghi d'ambientazione come i primissimi piani, che vanno però a punteggiare le sequenze in cui è protagonista il condizionamento di un potere freddo e impalpabile sui personaggi. Una spazialità quindi continuamente stressata, per eccesso e per privazione, come a costruire un piccolo noir personale attorno al protagonista, contrapposto alla pulizia irreale del paradiso perduto in cui si trova ad agire - anche per colmare i pochi spunti offerti da
script e
performance. Anche qui, come nella maggior parte dei film che lo vedono protagonista, domina il
one-man show di Cruise, ma ha i connotati più profondi che sfiorano una ricerca sul senso dell'identità e la memoria (in una consonanza esistenziale con il recente "
Looper"). La tensione sembra avvilupparsi su se stessa scena dopo scena, a partire da una prima parte incalzante e fitta di interrogativi, per poi stemperarsi in uno sviluppo affrettato e poco risolutivo, nonostante il
twist narrativo su cui si costruisce tutta la pellicola.
Ed è qui che "Oblivion" trova la sua benedizione e il suo inferno: il
twist fa da coperchio al calderone di citazioni e riferimenti da cui Kosinski ha pescato. Evidenti i debiti a "Matrix", "La Fuga di Logan" e il più recente "
Wall-e", ma il riferimento più grosso è al bellissimo "
Moon" di Duncan Jones, di cui "Oblivion" sembra una versione più
action e ottimista. Dal canto suo, Kosinski è abilissimo nel cucire insieme questi capisaldi e farne un prodotto ben costruito, ispessito dall'apporto musicale elettronico degli
M83 (con echi allo Zimmer più
nolaniano), ma il suo film è un'occasione fondamentalmente mancata in un momento di così plateale visibilità per il genere. Forti dei buoni incassi, speriamo in una nuova occasione.
15/04/2013