Sulla carta l'idea di dare un seguito al cult “Tron”, classe 1982, uno dei primi film ad utilizzare in modo massiccio la computer graphic (e ad essere interamente ambientato in una “realtà virtuale”) poteva funzionare. Avrebbe potuto essere una ghiotta occasione per riflettere sul passare del tempo e su com'è cambiato il cinema di genere (un po' come un altro recente sequel sui
generis, quello di “
Wall Street”), per aggiornare la tecnologia della precedente pellicola all'era del digitale, per parlare del rapporto tra uomo e macchina, ma anche, e soprattutto, per realizzare un genuino spettacolo popolare. “Tron Legacy” poteva essere tutto questo, ma fallisce invece su tutti i fronti, rivelandosi più un
remake della pellicola originale, che un vero e proprio
sequel.
Il film dell'82 firmato Lisberger, diciamolo, è invecchiato male: rivisti oggi gli effetti da videogame con cui è animato il mondo all'interno del computer risultano simpaticamente kitsch, così come le tutine fosforescenti indossate dai protagonisti. La sceneggiatura, già vecchiotta e scontata all'epoca, non sta più in piedi, e tutto si riduce a una noiosa lotta per sconfiggere il malvagio elaboratore elettronico, come nei più classici canovacci avventurosi. “Tron Legacy” riprende e amplifica i difetti del prototipo, senza curarsi minimamente (errore fatale) di dare qualche spiegazione “logica” al pubblico pagante. Così, dobbiamo dare per scontato che esista un mondo virtuale chiamato “la Rete” in cui i programmi hanno una fisionomia umana, dove le persone reali possono entrare ed uscire (letteralmente) a piacimento, in cui, per divertirsi, si costringono i programmi “più deboli” a combattere e sfidarsi in assurdi giochi da arena (corse in motocicletta, battaglie con frisbee luminescenti). Lo
script di Edward Kitsis e Adam Horowitz (uno dei principali sceneggiatori del serial “Lost”) sembra quindi solo un accessorio per giustificare l'entrata del protagonista nello sgargiante mondo virtuale, in cui assistiamo praticamente al remake del “Tron” originale piuttosto che ad un prosieguo di quegli eventi. Davvero poco è cambiato rispetto al film dell'82: qui ad entrare nel computer è il figlio del creatore del mondo virtuale, alla ricerca del padre scomparso anni addietro. Le sfide che dovrà superare il giovane Sam sono le stesse affrontate dal papà Jeff Bridges a suo tempo, benché i meccanismi dell'azione siano aggiornati alla concitazione dei nostri giorni e gli effetti digitali siano opportunamente migliorati (ma non per questo meno ridicoli, le tutine luminose fanno ancora ridere).
Tutto si riduce – ancora - alla battaglia per debellare lo strapotere del perfido despota di turno, in questo caso il doppio di Kevin-Bridges, una creatura virtuale (che ha le sembianze dell'attore di trent'anni fa, con un effetto non proprio espressivo e riuscito) intenzionata a creare un mondo “perfetto”, governato col pugno di ferro, a costo di arrivare a tragiche epurazioni e l'eliminazione degli avversari “politici”. Non è cambiato nemmeno il tono rispetto alla pellicola dell'82, che resta incredibilmente serioso e cupo, in questo caso aggravato dall'aggiungersi di dubbi sottotesti
new age (Bridges scopre che nel mondo virtuale esiste una non meglio specificata nuova specie di vita in grado di rivoluzionare tutto ciò che conosciamo del genere umano e sul nostro posto nell'universo) , ipocriti messaggi libertari (Flynn auspica un futuro in cui i software potranno essere usufruiti da chiunque senza pagare) e conflitti generazionali padri-figli abbandonati un po' a sé stessi e non approfonditi a dovere. Certo, resta l'efficacia spettacolare delle prime sequenze, la sorpresa nel trovarsi catapultati in un altro universo (l'effetto 3D è usato con perizia, ma resta un giochino) alieno e desaturato (come per l'originale “Tron” una delle influenze più importanti resta “L'uomo che fuggì dal futuro” di Lucas), ma lo stupore resta per qualche minuto per lasciare presto spazio alla noia.
Le efficaci musiche del duo elettronico francese
Daft Punk (che compaiono in un divertente “cameo”) sembrano essere l'unico elemento del film di Kosinski che riesce ad amalgamare sapientemente vecchio (sinfonie orchestrali) e nuovo (
beat house e possenti synth), ma davvero non è sufficiente a risollevare le sorti di un prodotto che funziona poco anche a livello di “
entertainment” (gli incassi inferiori alle aspettative ne sono la prova).