"Non odiare" è un film dal sicuro impatto emotivo che fa del non detto e degli apparenti silenzi il mezzo privilegiato per spingere lo spettatore a rispondere in proprio alle domande tacitamente evocate. Il soggetto di fatto non nuovo (l’antisemitismo e più in generale il razzismo), cela in realtà livelli di indagine più profondi sui quali Mauro Mancini, regista al suo primo lungometraggio, vuole far luce e che toccano il rapporto tra generazioni, l’etica professionale, le problematiche socio-economiche e, in definitiva, l’interrogativo su quali siano i valori alternativi all’odio.
Il film si apre con un bambino che di fronte a una distesa lacustre riceve da un uomo, che poi capiremo essere il padre, l’ingiunzione a scegliere quale gattino salvare fra tutti quelli che porta con sé. Il bambino esita, non vorrebbe sacrificare nessuno, ma alla fine deve cedere. Non un accenno alla situazione familiare o al vissuto infantile. Solo un dettaglio emerge dalla sequenza: il padre reca incisa sul braccio una serie di numeri, inequivocabile indizio del passato da internato in un campo di concentramento. Anche il sacrificio dei felini può dunque essere considerata la metafora del fatto che in pochi ne sono tornati, mentre moltissimi no. La breve sequenza è connotata da accesi contrasti: il bambino, metafora dell’innocenza, e lo specchio d’acqua, simbolo della vita, che si tingono di una lugubre atmosfera. Si tratta di un flashback che rievoca un ricordo nell’animo del protagonista, Simone. Il ricordo solleva agli occhi dello spettatore il tacito interrogativo di come possa un padre adulto, testimone in passato di tanta sofferenza, perpetrarla nei confronti del figlio con un incarico così crudele.
Balzo cronologico in avanti. Simone ora è un non più giovanissimo ma affermato chirurgo che vive un’esistenza apparentemente tranquilla, scandita dalle ore di lavoro e dalla pratica del canottaggio. Finché, nel corso di una pagaiata, richiamato dal rumore di un incidente stradale, si precipita verso un’auto, dove in un primo momento soccorre un uomo agonizzante, Antonio, avvalendosi della cintura di sicurezza come laccio emostatico, salvo poi allentarla una volta scoperte la svastica e gli altri simboli di matrice nazista tatuati su braccia e petto della vittima. La macchina da presa si muove nervosamente rimarcando l’intera sequenza, pressoché muta, ma dal forte impatto iconico. I gesti rapidi, meccanici e precisi del chirurgo si fanno lenti, incerti, esitanti. Il tempo si dilata. E da parte del pubblico nei confronti del protagonista si sollevano interrogativi, acuiti dalla mancata verbalizzazione e condivisione dell’episodio: Simone non comunica a nessuno quest’esperienza che, di fatto, sarà determinante. A un ulteriore livello interpretativo, le scritte e i tatuaggi sulla pelle diventano metafore della precarietà del giudizio sulle vicende umane: il braccio del padre di Simone smentisce che l’esperienza del lager lo abbia reso migliore, mentre i simboli della presunta superiorità razziale di Antonio sanno di beffa in quanto di fatto ne determinano la morte.
Su queste contraddizioni, per cui ciò che sembra bianco è nero e viceversa, si gioca l’originalità della pellicola. Simone, intimamente lacerato per la morte di Antonio, cerca di riscattarsi assumendone la figlia (Marika) come colf, ed è perfino disposto a pagarla più di quanto facesse con la domestica straniera che ha appositamente licenziato. Nonostante le iniziali distanze, la frequentazione tra i due svela i lati oscuri del vissuto di entrambi. Entra quindi in gioco un ulteriore livello interpretativo circa il focus del film, quello cioè costituito dal rispettivo rapporto con il padre scomparso. E nuovamente emerge un erlebnis che smentisce le categorie in base alle quali esprimere un giudizio a cui ancorare saldamente l’assoluzione e la comprensione verso alcuni, la condanna e l’odio verso altri.
Se infatti Simone riconosce senza sforzo le storture riconducibili al ruolo negativo che il padre ha rivestito per la sua esistenza, Marika fa emergere un ritratto positivo del padre, a prescindere dalle sue convinzioni politiche. Marcello, fratello ancora adolescente di Marika, non accetta che la sorella faccia da colf a un ebreo e le rinfaccia un presunto tradimento dei valori trasmessi dal padre, ma lei lo riporta coi piedi per terra facendogli notare che proprio il padre si adattava a ogni lavoro pur di tirare avanti. Tanto la dialettica tra Marcello e Marika è accesa e verbalizzata, quanto le distanze tra la giovane e il chirurgo si attenuano. L’uomo ne è superficialmente attratto. Due mondi, che sembravano destinati a collidere, si confrontano, con poche parole e molti silenzi. E paiono coincidere. Marcello viene ferito dopo aver mortalmente accoltellato un usuraio che vantava un credito nei confronti del padre. A salvarlo sarà proprio Simone, che gli dona il proprio sangue, nonostante il giovane sia inizialmente recalcitrante.
La matrice kieślowskiana di "Decalogo", oltre che nel titolo e nell’asciuttezza della trama, è evidente nell’esigenza di non limitarsi a ribadire cosa secondo l’etica giudaico-cristiana non sia lecito fare (in questo caso odiare), ma di suggerire in filigrana che cosa andrebbe fatto: ascoltare, provare comprensione, misericordia. L’istanza propositiva diventa così risposta agita agli interrogativi sollevati di cui si diceva. In questo senso, per quanto sul piano strettamente dottrinario "Non odiare" non echeggi esplicitamente un comandamento, a un livello più profondo esso contiene in realtà l’invito a fare di più, cioè ad amare il prossimo. Ebbene l’abilità di Mancini consiste nel fatto che tutto ciò non venga verbalizzato, ma emerga dalla forza comunicativa della messa in scena e dall’abilità interpretativa degli attori, Alessandro Gassmann in primis.
La vecchia villa paterna, saltuariamente frequentata da Simone fintanto che non ne vengano traslocati i mobili, è il luogo dei ricordi per eccellenza. La fotografia in penombra, la luce giallognola, gli arredi accatastati, i documenti sugli ufficiali nazisti, una menorah verrà portata in casa dal protagonista: tutto concorre a precipitare Simone nel silenzioso ricordo del padre, un dentista costretto nel lager a curare le Ss in cambio della vita.
In chiastica continuità con l’incipit, il film si conclude con il protagonista che, in compagnia del cane, si reca presso quel medesimo specchio d’acqua cui era legato il traumatico ricordo paterno. È il segno che un’esperienza si è conclusa e che l’equilibrio interiore è stato aggiunto.
cast:
Alessandro Gassmann, Sara Serraiocco, Luka Zunic, Lorenzo Acquaviva, Lorenzo Buonora
regia:
Mauro Mancini
titolo originale:
Non odiare
distribuzione:
Notorious Pictures
durata:
96'
produzione:
Movimento Film, Agresywna Banda, Notorious Pictures Italia, RAI Cinema
sceneggiatura:
Mauro Mancini, Davide Lisino
fotografia:
Mike Stern Sterzynski
scenografie:
Carlo Aloisio
montaggio:
Paola Freddi
costumi:
Catia Dottori
musiche:
Pivio, Aldo De Scalzi