Non sono pochi i cineasti europei, anche di prestigio (Bergman, Reitz, Fassbinder), che tra gli anni 70 e 80 hanno prodotto per la televisione opere di lunghezza non convenzionale. Il "Decalogo" di Kieslowski, scritto per la televisione polacca insieme a Krzystof Piesiewicz (coautore di tutti i film di Kieslowski a partire da "Senza fine" del 1984) rappresenta un caso singolare per via della sua particolare struttura. Si tratta infatti di 10 episodi fra loro indipendenti come una raccolta di novelle, accomunati dal riferimento ai 10 comandamenti dell'Antico Testamento. Unico altro elemento in comune, la circostanza che molti personaggi risiedono nello stesso comprensorio di grigi palazzoni, a suggerire un reticolo di storie dense, estranee ma intrecciate fra loro. C'è poi la ricorrenza enigmatica di una figura silenziosa, presente nei momenti cruciali di 8 episodi.
Per ragioni contrattuali furono realizzate due versioni estese del quinto e del sesto episodio, destinate alle sale e all'estero. Intitolate "Breve film sull'uccidere" e "Breve film sull'amore", contribuirono alla fama internazionale del "Decalogo": il primo ottenne un premio a Cannes e Kieslowski fu chiamato a lavorare in Francia, dove girò tutti i film successivi, fino alla prematura scomparsa.
Forte l'omogeneità stilistica dell'opera, dominata da un'essenzialità che guarda a modelli quali Dreyer e Bresson. L'austerità come veicolo per scrutare nell'intimità dell'animo. Primi piani che emergono dall'oscurità: al cuore di molti episodi, un confronto intimo fra due personaggi si svolge nel buio, il più delle volte di notte, prima che arrivi l'alba. La cifra stilistica più personale del cineasta polacco sta, poi, nel fitto contrappunto di dettagli simbolici e metaforici di cui è preziosamente intessuto ogni episodio. Ad esempio, nel secondo, una vespa arranca sulla parete interna di un bicchiere, lottando per sopravvivere, e rimandando al tenace attaccamento alla vita di un malato. Non è questa la sede per un'analisi stilistica più approfondita, ma senza dubbio un posto centrale sarebbe riservato a questi dettagli che costituiscono un veicolo per accedere al significato più profondo di ogni vicenda. Qui privilegeremo una lettura ancorata alla sceneggiatura; per questo, ci troveremo a rivalutare il contributo di Krzystof Piesiewicz, a tutti gli effetti coautore del "Decalogo".
Dal precetto alla pietà
Gli episodi si intitolano semplicemente con un numero; in nessuno viene mai menzionato il comandamento biblico. A un livello superficiale è possibile individuare una violazione formale del precetto, ma si tratta sempre di qualcosa di esteriore: se non proprio ingannevole, non rappresenta ciò su cui la narrazione si incentra. Inoltre, tale violazione entra spesso in conflitto con un'altra responsabilità morale che è possibile scorgere a un livello appena più profondo. Vi è poi un terzo livello dove il precetto biblico comincia a sfumare, lasciando spazio alla descrizione di una più generale condizione umana. Non si tratta di qualcosa di ineluttabile: convinti del libero arbitrio, i due autori non rappresentano un Fato più grande dell'uomo. Però, anche se non siamo dalle parti della Tragedia classica, siamo costretti comunque a constatare che è quasi impossibile vivere senza restare invischiati in responsabilità morali a volte insospettabili. I dieci comandamenti non sono messi in dubbio o sminuiti, però sono problematizzati. Svuotati del significato più banale per scovare in essi referenti universali dell'inferno dell'etica in cui ci troviamo a vivere (citando l'ottavo episodio).
Il punto di vista dei due autori, seppure asciutto, non è impietoso. Non c'è condanna. Se il libero arbitrio rende evitabile la colpa, spesso ciò va al di là delle capacità umane: perciò i finali lasciano spesso intravedere uno spiraglio, chiudendosi all'insegna del perdono e della pietà. È proprio la pietà il concetto chiave del "Decalogo" come lo è l'amore/carità per l'etica cristiana (fede e speranza sono niente senza ἀγάπη, il comandamento di Cristo, l'amore della I lettera ai Corinzi che i due Krzysztof citeranno in "Film Blu"). Su un ultimo e più profondo livello si colloca dunque la compassione. Il Dio del Nuovo Testamento sostituisce in nome del perdono il Dio vendicativo del Vecchio Testamento in cui si trovano enunciati i dieci comandamenti. Kieslowski e Piesiewicz (che di professione era avvocato difensore) suggeriscono, alla fine di ogni film, che solo la compassione può fornire una via di fuga dall'inferno morale in cui è costretta l'esistenza. L'unico episodio che si chiude nella disperazione è il quinto, corrispondente a "Non uccidere", in cui va in scena la pena di morte.
Procederemo ad analizzare l'opera episodio per episodio. Avvertiamo che, per mettere in luce la chiave di lettura prescelta, riveleremo le trame inclusi i finali.
1. Un professore appassionato di computer e suo figlio. Il padre calcola al computer la resistenza del ghiaccio del laghetto su cui il bambino desidera pattinare: non ci sono pericoli. Ma il figlio viene trovato morto nel lago: la temperatura si era alzata, forse a causa del fuoco acceso da un senzatetto.
Fra gli episodi meno allusivi e più diretti di tutta l'opera, quasi un teorema. A un certo punto il protagonista dichiara di essere ateo: siamo al livello del precetto biblico "Non avrai altro Dio fuori di me". Ma la colpa di questo padre esemplare e affettuoso non è certamente l'ateismo, né la fede nella scienza. Sarebbero portatori di un punto di vista ben mediocre, Kieslowski e Piesiewicz, se intendessero condannare il razionalismo. La vera colpa del padre è un'altra: la notte prima della tragedia, aveva visto il fuoco acceso nei pressi del laghetto. L'errore è aver sottostimato gli effetti del calore. Aveva già fatto i calcoli al computer: a sbagliare non è stato il suo dio, il computer. Su un secondo livello, perciò, si colloca l'ingenuità con cui ha trascurato l'imponderabile, che pure era sotto i suoi occhi. E questo apre le porte alla difficoltà di cogliere e accettare l'imponderabile. L'incoscienza quotidiana del mistero, sia esso associato a una dimensione metafisica o al semplice caso. Il gesto di disperazione con il quale l'uomo alla fine rovescia un altare, rivela un cedimento inconscio alla superstizione: di fronte al lutto più inaccettabile, ha bisogno di scagliarsi contro qualcosa di più grande. La morte di un figlio è insopportabile, l'eventuale co-responsabilità in essa fonte di un dolore inimmaginabile. Giunti alla fine dell'episodio, si prova un'impotente pietà. In uno di quegli straordinari dettagli di cui il "Decalogo" è intessuto, da una candela cola della cera: cadendo sulle gote di una madonna dipinta, quest'ultima sembra stia piangendo di compassione.
2. Un uomo ha un tumore. Sopravviverà? La moglie pretende un responso dal medico. Aspetta un bambino, ma non dal marito. Sarebbe l'unica occasione di avere un figlio che desidera, ma abortirebbe se il marito avesse speranze di vita. Il medico, mentendole, le dice il marito morirà. Nell'ultima scena, il marito ha iniziato a riprendersi, e parlando col medico si mostra felice per il figlio in arrivo. Il medico lo ascolta in silenzio.
Il secondo comandamento vieta di invocare "invano" l'intervento divino: non la banale bestemmia, ma la preghiera impropria. La protagonista, potesse interrogare Dio come il medico, chiederebbe di squarciare il mistero (di nuovo!) sulla sorte del marito, per tenere il bambino o abortire per risolvere il problema che (è convinta) costituirebbe per lui quella gravidanza. È evidente il dilemma morale dischiuso dalla facoltà di scegliere di abortire per ragioni estranee alla salute della madre o del nascituro. La donna è costretta a vivere una condizione di particolare infelicità, perché non vorrebbe abortire ma essere madre. La sua prova mette in luce, come il primo episodio, la necessità di accettare l'imponderabile e la dimensione quasi inarrivabile di tale esercizio. Impossibile vivere lucidamente un dilemma tanto lacerante: a comprenderlo è il medico, in cui si incarna la pietà. È lui dunque a farsi carico delle responsabilità, prima mentendo alla donna col dirle che il marito è incurabile, quindi sottacendo al marito che il figlio non è suo. Nel silenzio finale del medico c'è in egual misura malinconia e compassione. La donna disperava di tenere entrambe le vite (figlio e marito), ma ad impedirlo non era né il caso né un dio: era solo una prigione mentale. Se il finale è liberatorio, la consapevolezza che leggiamo negli occhi del medico lascia un senso di amarezza.
3. Una famiglia la notte di Natale. Suona il citofono. È l'ex amante dell'uomo. Lui scende con una scusa. Sarà costretto a trascorrere tutta la notte in sua compagnia, alla ricerca del marito che lei dice scomparso. In realtà la donna è ormai sola. Aveva scommesso con se stessa: se non fosse riuscita a strapparlo alla famiglia la notte di Natale si sarebbe uccisa. All'alba l'uomo fa rientro. La moglie ha capito, lui dice che non risuccederà. Lo sguardo di lei è fiducioso.
Il precetto di "santificare le feste" è violato sia dal marito che, pur riluttante, abbandona moglie e figli la notte di Natale, sia dalla sua ex amante che lo costringe a questo, offendendo lui e la sua famiglia. Eppure, lui sta trascurando la moglie e i figli a fin di bene, quasi percependo inconsciamente i propositi suicidi di lei. Le responsabilità sono diverse e stanno altrove. A un livello meno superficiale, la colpa è stata l'adulterio. La relazione era stata troncata: ma l'uomo è quasi più responsabile di aver abbandonato l'amante allora, che non la moglie questa notte. Non possiamo che provare compassione per quella donna disperata, sola nella notte dell'anno "in cui nessuno dovrebbe restar solo". Quale delle due questo marito ha abbandonato veramente? La condizione umana di fronte alla quale siamo posti è proprio la solitudine. E la vera "colpa", se ce n'è una, è il dimenticarsi della solitudine di chi ci è stato vicino, proprio nel momento in cui celebriamo il legame con chi ci è più caro. Una colpa da cui davvero non è esente nessuno. La pietà è tutta racchiusa nello sguardo di comprensione con cui la moglie accoglie il marito all'alba. (Quanti episodi si concludono all'alba, quando torna la luce dopo una lunga notte!) Nella sua comprensione la moglie sceglie la fiducia, e sembra consapevole di quanto accaduto pur essendone all'oscuro: ha dunque scelto di accogliere il mistero.
4. Un padre e sua figlia. Aprendo di nascosto una lettera che la madre le aveva scritto prima di morire, la ragazza scopre di essere figlia di un altro. Qual è la natura del legame con l'uomo che le ha fatto da padre, e per il quale prova qualcosa di più di un affetto filiale? In cosa può trasformarsi il loro amore?
L'episodio è un vertice dell'arte di Kieslowski. La delicatezza delle sfumature che arriva a toccare, l'intima atmosfera del confronto notturno fra i due, sono struggenti, anche grazie alle musiche di Zbigniew Preisner (straordinarie in tutto il "Decalogo"). Qui la superficiale violazione del precetto che chiede di "onorare" i genitori è la violazione di un segreto stabilito dal padre: infatti, la busta contenente la lettera della madre è contenuta a sua volta in una busta su cui il padre ha scritto "Da aprire dopo la mia morte". Eppure, la colpa (se ve n'è una) è semmai l'attrazione incestuosa (peraltro reciproca). A un terzo livello, qui si parla del desiderio di scegliere liberamente in quale modo potersi amare. Anche qui, fa capolino la ὕβϱις, la volontà di conoscere, svincolarsi dal mistero (che è poi la colpa del peccato originale): sperare di risolvere il mistero facendo luce sull'assenza di un legame di sangue... Davvero non è padre colui che abbiamo sempre saputo essere padre? Ci sono tutti i crismi di un complesso di Elettra. Alla fine, si scopre che la ragazza aveva inventato il contenuto della lettera, che è rimasta intatta. Eppure, aveva colto nel segno: l'uomo ha ammesso di non essere suo padre naturale. Il gesto di bruciare all'alba la lettera della madre è allora solamente un rito, con cui accettano simbolicamente di non sapere. Accettano, sembrerebbe anche, il loro amore per quello che è: indecifrabile. Non si può pretendere di incasellare l'amore senza con ciò anche violarlo.
La bellezza del quarto episodio, il meno tragico, è supportata dal fatto che l'amore fra i due non è mai messo in crisi, e le colpe non sembrano scalfirlo. In ciò l'episodio costituisce un paradosso, quasi analogo a quello costituito dal canto di Paolo e Francesca nell'Inferno di Dante.
5. Un giovane uccide un tassista; la scena dell'assassinio è lunga e angosciosa. Viene processato e condannato a morte. L'avvocato che lo difende, contrario alla pena capitale, è costretto ad assistere impotente.
A partire dal filtro giallo della fotografia, qui tutto appare sotto una luce diversa. Di fronte al crimine più grave, viene seccamente esposta riprovazione per l'omicidio istituzionalizzato della pena di morte. È la legge del taglione: qualcosa dell'Antico Testamento che ancora sopravvive ai giorni nostri - con la differenza che a operare la vendetta non è un dio, ma l'uomo. Perciò il quinto episodio è costretto a riconoscere l'assenza della pietà, affidata, in modo in verità didascalico, al personaggio dell'avvocato, al suo sguardo impotente durante l'esecuzione, e al suo finale sfogo disperato. Lo scarto rispetto al resto dell'opera è notevole, ma non se ne tradisce il senso, che viene anzi confermato con coerenza. La vendetta è l'opposto della pietà: senza pietà c'è solo Male, e non possiamo che guardare il mondo attraverso un giallo e desolante squallore.
6. Un ragazzo vergine è ossessionato da una donna che spia dalla finestra, dalla vivace vita sentimentale. Un giorno si incontrano: lei gli svela materialmente il lato povero dell'eccitazione sessuale. Lui, umiliato, frustrato, deluso, tenta il suicidio. Lei ne è sconvolta, comprende la delicatezza psicologica: ora è lei a esserne attratta.
"Non commettere atti impuri". Il sesso come solitudine. Una donna che la vita e il disincanto hanno condotto a un avvizzimento della vita sentimentale e un giovane che ancora confonde sesso e amore. Se la donna ha perso fiducia nei sentimenti, che dovrebbero accompagnare l'atto sessuale per renderlo felice (prima che "puro") è perché la vita l'ha costretta al più banale disincanto, e a una infelicità che accetta passivamente. "Decalogo 6" parla dell'infelice solitudine cui ci costringiamo nonostante l'aspirazione alla gioia. In questo senso le condizioni dei due protagonisti sono davvero speculari come le loro finestre: lei, con i suoi amanti, è sola quanto lui, che, nella sua acerba ingenuità, condita da un'esasperata idealizzazione del desiderio, è talmente infelice da arrivare a propositi suicidi. La solitudine non è risolta dal finale agrodolce (sublime in particolare quello della versione estesa di un'ora e mezza per il cinema), ma ad aprire uno spiraglio è la pietà che lui e lei hanno reciprocamente maturato. Grazie all'esperienza l'uno dell'altra, si sono specchiati in una solitudine diversa dalla propria, esattamente complementare. Forse, per questo, sono adesso meno soli.
7. Una signora che avrebbe desiderato una seconda gravidanza si è arrogata con un falso la maternità della nipote, figlia della figlia rimasta incinta a sedici anni. La vera madre desidera vivere la propria maternità: rapisce la piccola, cui chiede di essere chiamata mamma. La nonna, fredda e scostante, è legata morbosamente alla bimba, che è abituata a saperla sua madre. Per la vera madre non c'è futuro con sua figlia: la breve fuga si conclude all'alba a una stazione ferroviaria. La bimba corre in braccio alla nonna, chiamandola mamma; la ragazza prederà il treno da sola.
"Non rubare". Ma chi è la ladra? La vera madre o la nonna, che facendo carte false (e approfittandosi dell'immaturità altrui) ha rubato una figlia a sua madre? Tolto il quinto, si tratta dell'episodio più cupo del "Decalogo": e si fatica a scorgere pietà nel finale. Saremmo inizialmente portati a prendere le parti della giovane madre, che ci viene presentata come dolce e sofferente, al contrario della terribile genitrice. Ma non c'è più margine per una soluzione giusta per tutti. La bambina è cresciuta con una madre (e un padre) di riferimento, che non possono esserle privati se non a fronte di un trauma cui non ha diritto di essere sottoposta. Nessun figlio è una proprietà: più che in altri episodi, gli autori si concentrano su una specifica condizione umana. Stressando il concetto di furto (applicandolo cioè alle persone anziché alle cose), l'universalità di questo episodio riguarda i genitori - e in particolare le madri, nel momento in cui l'amore genitoriale si trasforma in bisogno. Dov'è l'amore, dove sono la carità e la pietà per questa bambina? L'amore non può essere egoista. La provocazione effettuata sul concetto di furto acquisisce un senso puntuale all'interno dell'opera.
8. Una professoressa di etica sottopone agli studenti l'analisi di dilemmi morali. Riceve la visita di una donna ebrea da New York, che, nel 1943, aveva rifiutato di nascondere dai rastrellamenti nazisti. Ne andava della sopravvivenza di un'intera cellula della Resistenza. La piccola, consegnata a morte quasi certa, si era salvata per caso.
Un altro teorema, che cita esplicitamente il dilemma morale del secondo episodio. Va in scena l'"inferno dell'etica": ossia una scelta fra due alternative fra le quali è impossibile non commettere un errore morale. L'ottavo comandamento, "Non dire falsa testimonianza", fu invocato nel 1943 dalla professoressa: non poter proteggere la bambina ebrea facendola passare per cattolica, perché sarebbe stata una falsità. Ma la volontà di non trasgredire il divieto religioso di mentire (ovvero dir falsa testimonianza) fu in sé una menzogna. Nessuna di queste menzogne costituisce il fulcro dell'episodio, che sta piuttosto nel senso di colpa, rimosso e ora riemerso. C'è di più: la protagonista insegna etica. Pretende di educare alla morale illustrando precisamente l'inevitabilità dei grovigli morali. In "Decalogo 8" tutto sembra dimostrare l'impossibilità di non contraddirsi. Ancora una volta è solo il perdono, dimostrato dalla donna più giovane, ad offrire uno spiraglio alla coscienza. Non si esce da soli dall'inferno dell'etica: la ragione può offrire soluzioni astratte, ma è destinata a schiantare di fronte alla realtà della vita.
9. Un uomo sposato scopre che la propria impotenza è incurabile. La moglie sostiene che il loro legame può fare a meno del sesso, ma lo tradisce. Lui la spia e la scopre. Lei rompe con l'amante, che però la segue di nascosto in montagna, dove è andata a sciare da sola. Non appena lui le si presenta, lei si precipita dal marito, il quale però ha tentato il suicidio, lasciando una lettera d'addio. Rientrata, lei trova la lettera, si dispera, ma riceve dall'ospedale una telefonata dal marito.
Nel sesto episodio la sessualità era in rapporto a individui soli, nel nono è vista in rapporto alla coppia. È il solo episodio in cui il precetto biblico ("Non desiderare la donna d'altri") è violato da un personaggio secondario: ciò ha probabilmente due ragioni. La prima è la formulazione del precetto: storicamente maschilista, gli autori hanno preferito decentrarlo. La seconda è l'attenzione centrata sulla coppia sposata, e sulla sessualità femminile in particolare. La "colpa" del marito, paradossalmente altruista, è ipotizzare l'atto sessuale come ingrediente indispensabile del legame di coppia. La colpa di lei è meno ovvia del tradimento: è l'ipocrisia. L'episodio racconta il travaglio che ne discende. Forse meno incisivo degli altri, "Decalogo 9" possiede una delle più raffinate costruzioni drammaturgiche e stilistiche del lotto (si pensi all'uso della soggettiva, dei riflessi, della sfocatura). Inoltre, è particolarmente ricco di spunti che troveranno sviluppo nei film successivi di Kieslowski (la cantante lirica cardiopatica di "La doppia vita di Veronica", la scoperta del tradimento di "Film blu", l'impotenza sessuale di "Film bianco", le intercettazioni telefoniche di "Film rosso").
10. Due fratelli scoprono il valore incommensurabile della collezione di francobolli del padre defunto. All'intenzione di convertirla in denaro subentra l'ossessione maniacale per la filatelia, che non avevano mai avuto. Uno di loro arriva a vendere un rene per entrare in possesso di un francobollo rarissimo. Una notte vengono derubati di tutto. Il giorno dopo, scoprono di aver comprato, all'insaputa l'uno dell'altro, dei nuovi francobolli. Ridono amaramente di se stessi.
Una commedia nera, dal ritmo sostenuto, lontana dal lirismo drammatico degli altri episodi. "Non desiderare la roba d'altri" parla di grettezza, di possesso, di desiderio per le cose materiali, transeunti. Il tono amaro della commedia riflette una vicenda da cui sono esclusi gli affetti. Qui si parla dell'avidità che accende l'esistenza, che si installa subdola al centro dell'animo spodestando altre affezioni. Il padre è appena morto ma di lui non importa nulla ai due figli, come d'altra parte a lui nulla forse è importato di loro. La sua eredità non è una collezione dall'enorme valore materiale. Quello che i figli si trovano ad ereditare senza accorgersene è il senso di attaccamento alle cose materiali, la "roba" destinata ad esser lasciata con la nostra dipartita, in nome della quale si sono sacrificati i legami affettivi. I due arriveranno a sospettare l'uno dell'altro, salvo alla fine farsi vicendevolmente pietà. Il decimo episodio è di poco meno tragico del quinto, pur sembrando una commedia. Un paradosso che rispecchia la sottovalutazione della povertà spirituale. Quando la quotidianità è alimentata dall'avidità e denutrita di amore, la tragedia è che sembri tragico esser derubati dei beni materiali, quando siamo noi per primi ad esserci derubati di cose più importanti. Come, per esempio, della fraternità.
cast:
Grażyna Szapołowska, Krystyna Janda, Aleksander Bardini, Daniel Olbrychski, Adrianna Biedrzyńska, Anna Polony, Artur Barciś, Jerzy Stuhr
regia:
Krzysztof Kieślowski
titolo originale:
Dekalog
durata:
572'
produzione:
Telewizja Polska (TVP), Sender Freies Berlin (SFB)
sceneggiatura:
Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz
fotografia:
Piotr Sobociski, Wieslaw Zdort, Edward Klosiński, Krzysztof Pakulski, Sławomir Idziak, Witold Adamek, Dariusz Kuc, Andrzej Jaroszewicz, Jacek Bławut
montaggio:
Ewa Smal
musiche:
Zbigniew Preisner