Marco Tullio Giordana torna nelle sale con un film la cui genesi sembra quasi profetica; "Nome di donna", infatti, andato in produzione ben prima della deflagrazione della bomba Weinstein e della nascita di #metoo, racconta la vicenda di una ragazza madre, Nina, che trova lavoro presso una rispettata casa di cura per anziani nell'entroterra milanese. Qui subisce le subdole avance del direttore, che si scopre essere solito elargire favori e promozioni alle inservienti dell'istituto in cambio di prestazioni sessuali. Protetto da paura e omertà, il direttore si ritrova presto a dover fronteggiare la tenacia di Nina, decisa a far cadere il castello di carte che sorregge l'impunità del direttore.
Se è vero che banalizzare un problema, e in particolare quello gravissimo delle molestie sui posti di lavoro, è il miglior modo per sminuirlo e ridimensionarlo, questo è esattamente l'errore che commette la sciatta sceneggiatura co-firmata dallo stesso Giordana.
La pellicola finisce imbrigliata nelle sabbie mobili di una struttura narrativa farraginosa, troppo impegnata a rimanere fedele alla sua natura di film di denuncia piuttosto che a cercare un'anima che, oltre a conferirgli un'identità precisa, avrebbe anche dato la possibilità di impostare un discorso costruttivo intorno al grande tema messo in scena.
Si stenta a riconoscere l'autore di un sensibile affresco generazionale come "La meglio gioventù" dietro la mano pigra che muove i fili di una storia, quella di "Nome di donna", che si limita a inanellare un avvenimento dietro l'altro, senza alcun tipo di introspezione o di analisi.
Gli snodi narrativi risultano essere una prevedibile accozzaglia di cliché, con il film che tenta persino di battere l'improbabile strada del thriller giudiziario ma puntualmente inciampa negli stessi luoghi comuni ai quali, dopo un'ora di proiezione, ha ormai abituato lo spettatore.
La sceneggiatura, che con premura imbocca allo spettatore qualsiasi contenuto voglia veicolare, non lascia nulla all'interpretazione costringendo chi guarda ad una partecipazione passiva alle vicende raccontate: emblematiche, in tal senso, risultano le scene di dialogo tra la protagonista (un'insipida Cristiana Capotondi) e il suo compagno, con battute degne di una fiction televisiva recitate come fossimo in una soap opera.
Questo fa sì che i personaggi riescano ad essere monodimensionali anche di fronte alle prove più dure dinanzi alle quali sono posti in conseguenza alle loro scelte; scelte che dovrebbero essere sofferte ma che mancano di qualsiasi tormento e travaglio interiore.
La cartina di tornasole di quanto svogliata fosse l'intera operazione la si può trovare facilmente nella scelta stereotipata delle maschere insignificanti messe in scena: la ragazza madre, il prelato omertoso, l'industriale prepotente, l'avvocatessa senza macchia e senza paura, e via così in un'insopportabile sequela di inutili macchiette difficilmente assimilabili a personaggi.
La fatica nel trovare uno spunto o un guizzo di qualsiasi genere in una pellicola così scialba rimane inappagata, al quale va aggiunto il retrogusto amaro che solo le occasioni perse sanno regalare.
cast:
Cristiana Capotondi, Valerio Binasco, Adriana Asti, Stefano Scandaletti, Michela Cescon, Bebo Storti, Laura Marinoni, Anita Kravos, Renato Sarti
regia:
Marco Tullio Giordana
distribuzione:
Videa
durata:
92'
produzione:
Lumière & Co., Rai Cinema
sceneggiatura:
Marco Tullio Giordana, Cristiana Mainardi
fotografia:
Vincenzo Carpineta
scenografie:
Giancarlo Basili
montaggio:
Francesca Calvelli, Claudio Misantoni
costumi:
Francesca Sartori
musiche:
Dario Marianelli