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recensione di Vincenzo Chieppa

C’è un motivo ben preciso per cui i più importanti film gangster della golden age hollywoodiana sono stati prodotti nei primi anni Trenta del Novecento, nel giro di poco più di un anno. I film in questione sono tre, citati praticamente ovunque (e sempre insieme) nelle varie storie del cinema: "Piccolo Cesare", di Mervyn LeRoy, uscito nel gennaio del 1931; "Nemico pubblico", di William A. Wellman, dell’aprile di quello stesso anno; e "Scarface – Lo sfregiato", di Howard Hawks, presentato il 31 marzo del 1932. Tre film che rappresentano – secondo il parere pressoché unanime dei commentatori – gli archetipi e contemporaneamente le vette del gangster movie americano dell’età classica. Dopo di essi non mancheranno le pellicole di un certo rilievo ("Angeli con la faccia sporca", di Michael Curtiz, del 1938, o "I ruggenti anni Venti", di Raoul Walsh, del 1939, per citarne alcuni tra i più celebri), ma per un vero rilancio del genere - sempre con riguardo all’ambito del cinema americano - occorrerà attendere le suggestioni derivate dallo sviluppo del noir nel secondo dopoguerra, se non addirittura la seconda metà degli anni Sessanta e l’avvento della New Hollywood.

C’è un motivo ben preciso o, per meglio dire, i motivi sono più di uno. Innanzitutto, c’è una semplice ragione di ordine storico: il fenomeno del gangsterismo, in America, fino ad allora marginale, raggiunse dimensioni considerevoli soltanto con gli anni Venti del Novecento, per effetto del Proibizionismo e delle manovre messe in atto dalla criminalità organizzata per far fronte alle mancanze che esso comportava.
Vi sono poi motivi strettamente tecnico-cinematografici, tra di loro peraltro connessi.
Il primo film sonoro prodotto a Hollywood, "Il cantante di jazz", era uscito soltanto qualche anno prima, nel 1927, e nei primi anni del periodo post-muto si erano registrate grosse criticità nella produzione di film parlati, che proprio a causa delle difficoltà tecniche (macchine da presa ingombranti e rumorose, con tutto quel che ciò comportava) avevano una qualità media piuttosto bassa (una fase della storia del cinema efficacemente descritta in una brillante sequenza del musical "Singin’ in the Rain").
Per avere i primi film sonori di qualità occorre dunque attendere almeno l’inizio degli anni Trenta, periodo in cui, tuttavia, una nuova minaccia iniziava a manifestarsi: quella della censura, di cui da più parti – e in primis tra le organizzazioni religiose – si chiedeva l’inasprimento proprio a seguito dell’introduzione dei dialoghi.

Nel 1930 gli Studios hollywoodiani, sempre più sotto attacco a causa dell’immoralità di alcuni dei film da essi prodotti, decisero, per evitare uno sgradito intervento esterno, ormai ritenuto imminente, di formalizzare un’autoregolamentazione censoria, adottando quello che passerà alla storia come Codice Hays, dal nome del suo principale redattore, il presbiteriano William Harrison Hays. Il Codice conteneva una serie di linee guida su cosa dovesse ritenersi moralmente accettabile all’interno dei lungometraggi e cosa invece andasse evitato, corretto o addirittura eliminato a posteriori.
Il Codice fu tuttavia sostanzialmente disatteso per alcuni anni e in particolare proprio in quei primi anni Trenta in cui uscirono alcuni dei film più controversi dell’età classica, prima che le maglie dell’autocensura venissero infine drasticamente serrate, lasciando ben poca libertà ai produttori.

È in questo contesto che, il 23 aprile del 1931, fa il suo debutto sul grande schermo un gangster movie crudo ed esplicito (almeno secondo i canoni dell’epoca), girato da un regista trentacinquenne di Brookline, Massachusetts, eroe della Prima guerra mondiale. Quando girò "The Public Enemy", William A. Wellman aveva già una discreta esperienza da director, con oltre una ventina di film all’attivo, principalmente muti, tra cui quel "Ali" ("Wings", 1927) che si era aggiudicato il primissimo Oscar per il miglior film assegnato dalla Academy of Motion Picture Arts and Sciences nel 1929. Dopo aver girato per tre delle cinque major (la Fox, la MGM e la Paramount), Wellman era in quegli anni al servizio della Warner Bros., la casa di produzione che grazie all’acquisto del circuito di distribuzione della Vitagraph e allo sviluppo del sistema Vitaphone, che le consentì di produrre il primo film sonoro della storia del cinema (il già citato "Il cantante di jazz"), riuscì a tenere il passo delle altre major, rispetto alle quali si trovava decisamente in ritardo.

Il sistema sonoro Vitaphone era talmente importante e fondamentale nella Warner Bros. di quegli anni che il suo nome e il suo logo appaiono a fianco di quello della casa di produzione fin dai titoli di testa di "Nemico pubblico", titoli che precedono un cartello moraleggiante (il "foreword" firmato dalla stessa Warner Bros.), anch’esso rivelatore dei tempi: "it is the ambition of the authors of "The Public Enemy" to honestly depict an environment that exists today in a certain strata of american life, rather than glorify the hoodlum or the criminal". Nessuna intenzione agiografica o esaltativa del crimine, dunque, ma un interesse squisitamente antropologico e sociologico, volto a descrivere i tempi e un certo tipo di ambiente che in allora esisteva all’interno di alcuni strati della società americana.
E infatti quella di "The Public Enemy" è essenzialmente una "true story" (come ricorda, anche qui, il "foreward"), sebbene raccontata mediante l’utilizzo di nomi e personaggi che sono invece "purely fictional".
Una storia - tratta dal racconto "Beer and Blood" di John Bright e Kubec Glasmon, sceneggiato da Harvey Thew - che prende il via nel 1909, quando il protagonista, Tom Powers, è poco più che un ragazzino insolente, che manifesta la sua indole da futuro malvivente compiendo piccoli furtarelli assieme all’amico Matt. Il fratello maggiore di Tom, Mike, è invece un teenager retto e integerrimo, il classico bravo ragazzo.
Già nell'incipit - che con una serie di stacchi di montaggio sposta l’azione dal centro di Chicago alle aree periferiche della metropoli dell’Illinois, con il traffico delle carrozze che cede il posto alla staticità del paesaggio industriale - Wellman focalizza l’attenzione su quello che è il tema principale del film: il disagio delle zone popolari in cui si può annidare la rettitudine dell’onesto ma anche la potenzialità criminale di chi è avvezzo a perseguire il sogno americano per strade più semplici e rapide da percorrere.

Dal 1909 delle marachelle giovanili ci si sposta al 1915 del pieno sviluppo criminale di Tom Powers, da questo momento in poi interpretato dall’astro nascente James Cagney, che verrà lanciato nell’olimpo di Hollywood proprio da questa pellicola [1].
Tom frequenta una banda criminale per la quale inizia a compiere le prime azioni malavitose. In uno scontro a fuoco con la polizia - nel quale peraltro un agente dimostra quanto poco accorte fossero già allora le regole d’ingaggio da parte delle autorità di pubblica sicurezza - Tom e Matt uccidono il poliziotto che aveva sparato alle spalle del loro complice Larry.
Due anni dopo – è il 1917 – gli Stati Uniti entreranno nella Prima guerra mondiale e Mike si arruolerà nei marines, lasciando Tom ad accudire l’anziana madre. È il momento in cui la tensione tra i due fratelli esploderà definitivamente, anche in maniera fisica, con un pugno rifilato dal bravo ragazzo Mike alla pecorella smarrita Tom. La contrapposizione tra i due fratelli, volutamente esasperata dalla sceneggiatura (nei tratti caratterizzanti più che nelle situazioni), è il primo atto di una tensione che raggiungerà il suo culmine al rientro di Mike dalla guerra.

Siamo nel 1920, all’inizio dell’era del proibizionismo, immortalato da una sequenza memorabile in cui una carrozzina da bebè – meno celebre di quella de "La corazzata Potemkin", ma altrettanto efficace nella resa scenica – viene riempita di bottiglie di liquore da uno degli svariati avventori che cercano di approfittare delle ultime ore di apertura dei negozi di alcoolici.


Tom è ormai uno sgherro di primo piano in città, lo scagnozzo di punta di uno dei principali smerciatori di birra di Chicago, che costringe con le maniere forti i dettaglianti a comprare il suo prodotto anziché quelli più economici offerti dalla concorrenza.
E proprio la birra è al centro di uno degli espedienti scenici (e scenografici) forse più grossolani dell’intero film: il barilotto piazzato in mezzo al tavolo, che si frappone come un muro nei rapporti familiari durante il primo pranzo successivo al rientro di Mike dalla guerra.
Il secondo pugno che il fratello rifila a Tom rappresenta l'apice dello scontro fisico tra i due, prima della parabola discendente che culminerà nella riappacificazione successiva al pentimento finale di Tom. Uno schema - quello del fratello buono in divisa, inizialmente a disagio con i metodi dei propri familiari, salvo poi abbracciare propositi di vendetta violenta non appena i legami di sangue vengono minacciati - che ritroveremo ne "Il padrino" di Coppola.

La violenza è centrale in tutto "The Public Enemy", pur rimanendo prevalentemente fuori campo, almeno nelle scene più controverse e cruente: l’omicidio del poliziotto; quello a sangue freddo del vecchio boss di Tom, mentre sta suonando il piano; l’abbattimento del cavallo; la vendetta finale contro gli assassini di Matt. Ed è anche per questo che "Nemico pubblico" finisce per essere uno dei film più suggestivamente violenti degli anni Trenta, perché banalmente non mostra ciò che lascia intendere essere drasticamente efferato.
Ciò che non finisce fuori campo è invece il contenuto di una scena tra le più celebri del film, anch’essa simbolo di una violenza, quella contro le donne, ai giorni nostri tutt’altro che lungi dall’essere debellata. In una sequenza che sconvolse il pubblico e la critica di allora, ma che ancora oggi si manifesta in tutta la sua inaspettata veemenza, Tom spiaccica rabbiosamente un pompelmo sulla faccia della sua amante del momento, Kitty (Mae Clarke) [2]. Anche per la "grapefruit scene" le leggende si rincorrono, tra chi sostiene che fu un’idea di Cagney, chi la attribuisce al produttore Darryl Zanuck e chi invece riferisce dell’ispirazione giunta da un reale avvenimento di cronaca, in cui un gangster spiattellò un’omelette sulla faccia di una donna in un locale pubblico [3]. Nel pieno del profilmico è anche l’altra scena di violenza di genere, quella in cui Tom schiaffeggia la fidanzata del boss Paddy Ryan, che la sera prima lo aveva sedotto mentre era ubriaco.

La figura della donna resta comunque centrale in "Nemico pubblico", quanto meno con riferimento a due personaggi femminili che esprimono pienamente il loro carisma sul protagonista: la madre di Tom, in primis, ma anche la (nuova) fidanzata Gwen Allen (la diva Jean Harlow), che tiene testa al gangster con un duplice, ambiguo rapporto che mescola sensualità e approccio materno.
Nessun fuori campo, dunque, e nessuna censura - più o meno esplicita - per le due scene di violenza sulle donne. Censura che invece colpì un segmento di dialogo apparentemente innocuo, quello in cui il sarto che prepara il vestito di Tom manifesta tendenze omosessuali con una battuta sui muscoli del gangster (frase tagliata, in mancanza della quale diventa peraltro non immediatamente comprensibile la battuta successiva con cui Tom sbeffeggia il sarto). Un segnale di come i dettami del Codice Hays avessero fatto presa con riguardo a determinati argomenti (l’omosessualità) ben prima di quanto lo fecero per altri aspetti (la rappresentazione della violenza, per l’appunto).

Per tutti questi aspetti "Nemico pubblico" rappresenta uno degli archetipi del gangster movie, capace di esprimere la sua influenza già nell’immediato e in particolare sullo "Scarface" di Howard Hawks, che a esso si ispira per molteplici aspetti, stilistici e contenutistici. Ritroveremo ampiamente nei posteri quelle scelte di ambientazione (i locali alla moda in cui i malavitosi vengono accolti con deferenza) o quelle situazioni che diventeranno cliché del genere (il boss fatto fuori dai suoi ex accoliti). Non sempre i successori del film di Wellman seguiranno invece la regola che la Warner rispettò pienamente, quella che prevedeva la necessaria brutta fine del delinquente protagonista.
Perché nemmeno il pentimento può salvare un’anima corrotta. Non c’è redenzione per chi sceglie la cattiva strada in luogo della retta via, ci dice "Nemico pubblico", con un’ortodossia giustizialista che si fa beffe della pietà cristiana della madre, che fino all’ultimo sperava di aver recuperato il figliol prodigo mai rinnegato. Eppure, è una scelta che ci regala uno dei finali più intensi e memorabili del cinema classico, quello in cui il cadavere di Tom viene riconsegnato impacchettato davanti alla porta di casa, cadendo pesantemente, faccia a terra, non appena Mike apre l’uscio, impaziente – come la madre – di abbracciare il fratello ritrovato.

È questa una delle sequenze in cui Wellman dimostra, più che in altre occasioni, le sue doti registiche e di messa in scena, doti troppo spesso confinate nell’ambito sminuente della perizia del mestierante. La macchina da presa si abbassa fino a raggiungere il livello del suolo per inquadrare il truce avvenimento dal basso verso l’alto, riprendendo il corpo infagottato di Cagney che cade rovinosamente in posizione prona. Pochi stacchi di montaggio alternano l’inquadratura in totale, il piano americano (il cadavere di Tom prima di cadere al suolo) e il piano medio (Mike accovacciato vicino al corpo del fratello, con un atteggiamento sconvolto che ha ancora molto della recitazione del muto [4]). Per poi tornare a quel totale che viene progressivamente coperto dalle gambe di Mike, che si avvicinano all’obiettivo per l’ultimo straziante fuori campo, quello del figlio che va a dare alla madre la notizia della morte del fratello.
Scelte efficaci nella loro apparente semplicità, che si affiancano ad altre oggi più convenzionali (il long take iniziale, con un movimento di macchina che introduce i due protagonisti poco meno che adolescenti). Scelte che mostravano, peraltro, come i problemi successivi al passaggio al sonoro potessero ritenersi ormai superati: in particolare, quello della mobilità della macchina da presa. Come superate paiono le difficoltà legate alla registrazione in presa diretta, considerate le diverse scene girate in esterni nonché quelle in cui Cagney pronuncia le sue battute in maniera rapidissima, per dare una caratterizzazione nevrotica al personaggio, fregandosene di una delle regole auree dei primi anni del sonoro, quella di scandire in maniera relativamente lenta i dialoghi per permettere al microfono di registrare correttamente l’audio.

Il cartello finale, specularmente moraleggiante rispetto a quello che apriva la pellicola, è altresì un manifesto politico-programmatico della Hollywood degli anni Trenta: "the end of Tom Powers is the end of every hoodlum. "The Public Enemy" is not a man, nor is it a character – it is a problem that sooner or later We, the public, must solve." Una dichiarazione in cui due parole, su tutte, emergono nella loro stentorea funzione programmatica: quel "WE", scritto in grassetto maiuscolo, con un carattere leggermente più grande delle restanti parole (con la sola eccezione del termine "END", anch'esso significativamente evidenziato per far coincidere la fine del film con la fine fisica del protagonista); e quel "public" che, oltre a essere un richiamo dell’attributo presente nel titolo, rappresenta una chiara dichiarazione di appartenenza, la definizione di un perimetro comune, quello in cui i fratelli Warner si pongono sullo stesso piano di chi guarda il film.
Non è peregrino rintracciare in quel "We, the Public" un’assonanza - anche grafica, se vogliamo - con il "We the People" che apriva il preambolo della Costituzione americana. Così come i costituenti del 1787 si ponevano come rappresentanti e portavoce del Popolo, fino a identificarsi con esso, allo stesso modo i produttori (e i fratelli Warner nel caso di specie) si pongono come rappresentanti e diretta estensione del pubblico, nel suo ruolo metonimico di campione rappresentativo del popolo medesimo. Peccato che si trattasse di un proclama ipocrita e didascalico, enunciato da chi cercava di lavarsi la coscienza dopo aver cavalcato il fascino maledetto del gangsterismo per scopi essenzialmente economici. Ma la Hollywood degli anni d’oro, cinica negli intenti e bigotta nelle apparenze, era in fondo anche questo.


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[1] Cagney - forse il meno conosciuto, almeno oggigiorno, tra i maggiori divi dell’età classica di Hollywood - fu scelto all’ultimo per la parte del protagonista, inizialmente affidata a Edward Woods, che finì invece per interpretare l’amico Matt.
[2] Cagney farà ancora peggio in "Lady Killers" (1933), sempre nei confronti di Mae Clarke, che trascinerà letteralmente per i capelli fuori da una stanza d’albergo.
[3] Le varie teorie sono riportate nel documentario "Beer and Blood: Enemies of the Public" (2005, di John Rust e Karen Hillhouse) nonché sul sito dell’American Film Institute, dove viene riportata anche una quarta ipotesi che ricondurrebbe l’origine della "grapefruit scene" a un diverbio domestico occorso al regista, che avrebbe voluto fare alla moglie ciò che poi chiese di fare a Cagney nel film.
[4] In generale, Donald Cook, l’attore che interpreta il fratello di Tom, Mike Powell, è colui che più di tutti recita secondo un canone ancora fortemente legato allo stile del muto, a differenza di Cagney, la cui recitazione è assolutamente moderna.


10/10/2022

Cast e credits

cast:
James Cagney, Jean Harlow, Donald Cook, Beryl Mercer, Edward Woods, Joan Blondell, Leslie Fenton


regia:
William A. Wellman


titolo originale:
The Public Enemy


distribuzione:
Warner Bros.


durata:
83'


produzione:
Warner Bros.


sceneggiatura:
Harvey F. Thew


fotografia:
Devereaux Jennings


scenografie:
Max Parker


montaggio:
Edward M. McDermott


costumi:
Edward Stevenson


musiche:
David Mendoza


Trama
L’ascesa e la caduta di Tom Powers, gangster di quartiere ai tempi del proibizionismo americano.