Dopo alcune annate interlocutorie la, comunque sempre nutrita, pattuglia di pellicole giapponesi al Far East Film Festival sta forse riacquistando smalto, come si poteva intuire già nella scorsa edizione, con due film sul podio, fra cui il dance drama vincitore "Midnight Swan". Ovviamente una rondine (anzi, un cigno) non fa primavera ma allo stesso modo è difficile negare che, all’interno di un’edizione in cui le filmografie asiatiche "minori" sono ancora più sottorappresentate del solito e la qualità media delle pellicole sembra essere più altalenante di quanto sia già solito, la solidità delle proposte giapponesi pare promettente (insieme all’inventiva di quelle filippine, probabilmente). "My Small Land", esordio al lungometraggio della fu assistente alla regia di Kore-eda Hirokazu ai tempi di "The Third Murder" Kawawada Emma, può a questo punto essere considerato uno dei film più emblematici della rappresentativa nipponica al FEFF, un garbato coming of age che si distingue per la cura dei dialoghi e l’intensità delle interpretazioni, nonché per l’interessante scelta di un altro tema marginale nell’immaginario del Paese del Sol levante, e nel dibattito interno al paese, ovvero la condizione degli immigrati, e nello specifico dei rifugiati, in Giappone.
È infatti meritevole d’attenzione anche solo la premessa del film di Kawawada, narrante le vicissitudini di una famiglia di profughi curdi nella prefettura di Saitama (la periferia di Tokyo per antonomasia, si potrebbe dire), focalizzandosi sulla famiglia Çolak e in particolar modo sulla primogenita Sarya. Ella è difatti un ingranaggio fondamentale della comunità curda locale poiché è l’unica a conoscere sia giapponese, turco e curdo (a differenza della sorella e del fratello minori) e quindi costantemente in aiuto ai suoi compatrioti, ma al contempo si sente giapponese ed è sempre più dubbiosa riguardo al conformarsi alle convenzioni sociali e religiose della sua comunità. Prevedibilmente, una situazione di partenza non idilliaca ma stabile degenera rapidamente in seguito al rifiuto (dopo moltissimi anni di residenza) della richiesta dello status di rifugiati della famiglia Çolak e al successivo fermo del padre, eventi che comunque si verificano in maniera cadenzata nella narrazione, enfatizzando così la spirale discendente in cui Sarya resta intrappolata. Si può quindi concludere che a un tema originale si accompagni uno sviluppo piuttosto classico, evidenziando una caratteristica centrale di "My Small Land", ovvero la semplicità come prospettiva estetica e narrativa.
Sia la regia sia la sceneggiatura rimangono difatti sempre legate a Sarya (protagonista in effetti di quasi ogni sequenza) e al tema della pellicola, lasciando che siano le interpretazioni efficaci da parte degli attori ad avere la parte del leone dal punto di vista espressivo. Sono difatti praticamente assenti scene madri e momenti iperbolici, optando invece per il continuo pedinamento dei membri della famiglia Çolak in modo che il degradarsi della loro condizione (e in primis di quella psicologica della protagonista) venga progressivamente esplicitato, optando per riprese prolungate e non di rado statiche, arricchite da vari primi piani che rimarcano quanto gli attori siano il principale mezzo espressivo nelle mani della regista, pur col sostegno della valida sceneggiatura della stessa. Così come il suo personaggio si fa carico sia delle aspettative della società giapponese sia di quella curda, e del mantenimento della famiglia dopo l’arresto del padre, l’attrice protagonista Arashi Lina assume sulle proprie spalle il compito di incarnare al meglio l’incontrovertibile centralità degli interpreti nel proposito espressivo di "My Small Land". Praticamente perfetta per la parte, fin dalle origini multi-etniche (parliamo di una russo-tedesco-irano-iracheno-giapponese), l’esordiente attrice e modella è appunto al centro esatto della pellicola, le cui evoluzioni vengono rese in primo luoghi anche dai suoi cambiamenti, divenendo sempre più insofferente e stanca, nonché perdendo pian piano tutti i propri vezzi determinati a farla sembrare quanto il più possibile giapponese.
Se inizialmente si può pensare che il film di Kawawada sia in primo luogo un dramma di denuncia sociale dedicato a descrivere l’ardua condizione degli immigrati in Giappone, paese che si fa vanto della propria cultura dell’ospitalità (e infatti non mancano sarcastiche battute al riguardo), il focus quasi totalizzante sulla ragazza (che conquista lo spazio dell’inquadratura anche nella prima sequenza, quando viene introdotta come una comparsa) ribadisce la natura di coming of age di "My Small Land". Più la narrazione avanza e più i tormenti di Sarya passano dall’essere stereotipicamente adolescenziali (l’insofferenza ai limiti che sente che la comunità curda vorrebbe imporle, la "sconveniente" attrazione per il suo collega di lavoro giapponese Sota, etc.) a farsi esistenziali e al contempo molto concreti, riflettendo in un certo qual modo la materialità della regia di Kawawada. Così la regista compie appunto una scelta semplice (che non vuol dire facile) e decide di concentrarsi su un filone tematico in particolare fra quelli accennati (la crescita repentina e dolorosa di Sarya in una fase di difficoltà e indefinitezza) e di subordinarvi ogni strumento espressivo di cui dispone. La regia minimale e la sceneggiatura completamente al servizio degli attori (e dei cliché del coming of age) contribuiscono a rendere quindi "My Small Land" un film riuscito e che offre il fianco a poche critiche (una gestione forse fin troppo fredda della questione dell’assenza del padre oppure una certa ridondanza nell’ultimo terzo del film) ma anche ben più convenzionale del suo spunto di partenza (con quella sequenza iniziale quasi etnografica del matrimonio curdo) e dei suoi protagonisti.
D’altronde Kawawada stessa l’ha dichiarato dopo l’incipit etnografico con uno dei rari momenti di stilizzazione del film: resa pensierosa dal momento di immersione nella vita della comunità curda, la giovane Sarya, sola col padre (e vestita con abiti tradizionali) in un autobus pieno di giapponesi, si mette a fissare il suo riflesso sul finestrino, guardando come cambiano i tratti del suo viso mentre il mezzo attraversa vari passaggi notturni. La convenzionale immagine del vetro/specchio (che difatti ritorna in vari momenti significativi della pellicola) come strumento per riflettere sulla propria identità e sui suoi cambiamenti rispecchia solo la protagonista, i suoi tormenti e i suoi cambiamenti, segnalando il focus volutamente ristretto di "My Small Land". D’altronde fin dal titolo è l’Io a venire enfatizzato, mentre la scena finale, e corale, in cui il titolo viene citato fa intuire la presenza di un orizzonte collettivo entro cui trovare significato (che sia famigliare, amoroso o culturale) la cui natura è però fantasmatica, un mucchio di simulacri in una fantasia, o gioco, di un bambino.
cast:
Lina Arashi, Daiken Okudaira, Sei Hiraizumi, Takashi Fujii, Lion Kahafizafdeh, Lilly Kahafizadeh, Yoshida Oolongta
regia:
Emma Kawawada
titolo originale:
Mai sumōru rando
distribuzione:
GAGA.
durata:
114'
produzione:
AOI Pro., Bandai Namco Arts
sceneggiatura:
Emma Kawawada
fotografia:
Hidetoshi Shinomiya
scenografie:
Hyeo-seon Seo
montaggio:
Shin'ichi Fushima
costumi:
Kyoko Baba, Yumi Nakamura
musiche:
Roth Bart Barton