Le elegie di
Sokurov all'interno dell'Hermitage e la maniacale profondità di analisi di
Wiseman sul cuore pulsante della National Gallery sono due meravigliosi esempi che permettono di realizzare come un'arte possa rendere grande un'altra arte, elevarla a meraviglia, denotandone la sua vitale importanza nella società e nella Storia di un paese. Perché in fondo un museo è questo: un tortuoso e scosceso albero genealogico alla ricerca del passato, della nostra identità collettiva.
Alonso Ruizpalacios, cineasta messicano che ha ottenuto molteplici riconoscimenti con il suo esordio ("Güeros" del 2014), ribalta la prospettiva: e se una nazione, una civiltà, perdesse le coordinate nei confronti di queste impronte e radici? "Museo" può essere racchiuso principalmente in tre principali macrosezioni: il presente (l'attuale generazione), la perdita del passato (o della Storia) e infine la ricerca della Verità (il Cinema).
Juan e Wilson, i protagonisti del film, sono figli del presente, "miserabili senza passato né futuro" come sentenzia il dottor Nunez, padre di Juan. Entrambi decidono di mettere in atto un improbabile furto al museo Nazionale di Antropologia nella capitale messicana. Improbabile solo sulla carta perché il colpo va inaspettatamente a segno con una facilità quasi irrisoria. L'avvenimento decreta l'inizio della fine, segna l'acme di una generazione di sconfitti, di falliti senza alcuno slancio vitale intrappolati da un nucleo familiare alla deriva. Il regista non a caso si concetra ostentatamente sulla cena di Natale rimarcando scherni e malefatte con una bizzarra cattiveria figlia del nostro
Monicelli. Juan è un buono a nulla, studia veterinaria da troppo tempo senza concretizzare nulla e quando riceve l'umiliazione più dolente, quella meschina dello svelamento alla famiglia/spettatore della sua inettitudine, decide di vendicarsi svelando ai giovanissimi nipoti che babbo natale non esiste. Nell'altra casa invece, quella dell'amico Wilson, il caos implode nel silenzio dell'infermità del padre e nella solitudine.
"Non sai mai quello che hai fino a quando non lo perdi". Ruizpalacios ha fatto suo questo eloquente proverbio per descrivere la lenta dissolvenza al nero del passato, della Storia. C'è una sequenza che racchiude in modo lapalissiano questo concetto, quella nella quale Juan fa ritorno sulla scena del crimine e percepisce come i visitatori siano quadruplicati, un po' per diletto ma soprattutto per ritrovare le proprie origini perdute, la propria identità culturale. Juan e Wilson non diventano dei semplici furfanti ma altresì nemici della nazione avendo sottratto l'eredità della storia messicana.
Il Centroamerica e il Sudamerica rappresentano il cinema più sorprendente e innovatore in rapporto a questo disorientamento e a questa continua ricerca di equilibrio. Lo sa bene il regista che piazza tra i protagonisti uno dei paladini cinematografici del grido di libertà cileno, Alfredo Castro. "Museo" potrebbe infatti essere non solo un'opera che fa da
trait d'union con le più avanguardistiche correnti cinematografiche ispaniche come lo fu il Cinema Novo brasiliano negli anni sessanta, ma soprattutto il prolungamento ideale di questa esplosione autoriale dell'ultimo decennio che ha visto in
Pablo Larrain il suo "leader egemone". Ruizpalacios rientra prepotentemente in questo schema insieme a
Cuaron e
Del Toro.
Il film si apre con uno sfondo nero e una scritta in giallo che recita: "questa è una replica della storia originale". Si, perché se si vuole prendere in carico l'ardua decisione di avvalersi della Storia, bisogna saper parlare di Verità. Ruizpalacios sa che il soggetto del suo film è basato su un reale fatto di cronaca avvenuto nel 1985 ma sa anche che non si può avere la presunzione di raccontare la Verità perché in fondo il reale motivo di quanto successo quella sciagurata notte non è a conoscenza nemmeno degli stessi autori del misfatto. Per questo motivo il film è volontariamente infarcito di una scrittura sovrabbondante ma è saggiamente raccontata con toni leggeri e sorprendente creatività. Tesi avvalorata dall'Orso d'Argento per la miglior sceneggiatura scritta dal regista insieme a Manuel Alcalá all'ultimo Festival di Berlino. Il montaggio è ludico, i falsi fermoimmagine nella sequenza della rapina un lampo di classe indubbio. E poi, gli inserti della commedia, del grottesco (la sequenza del posto di blocco e dell'autografo è cinema che si prende gioco del cinema), dell'onirico
felliniano (la danza notturna con il punto di riferimento della generazione odierna, una spogliarellista amante di un ricettatore e criminale), infine del road movie. Perché ritrovare, riscoprire il proprio passato è un nostro dovere ma l'arte del cinema ci insegna che "rovinare una bella storia con la verità" è un peccato mortale. Alonso Ruizpalacios lo sa bene.
01/11/2018