Dopo circa 35 anni di incessante attività, il Frederick Wiseman degli anni 2000 ha applicato il suo sguardo anche a realtà distanti - non solo geograficamente - da quegli Stati Uniti d'America che lo hanno visto massimo testimone cinematografico di documentari capaci di condensare la complessa eterogeneità di una nazione.
Difficile dire se rispetto al passato ci siano oggigiorno maggiori difficoltà nel ricevere permessi di girare in specifiche istituzioni americane e certamente sono giunte dall'Europa proposte (e contributi produttivi) allettanti, ma recuperando una parentesi del 1996 ("La comédie française ou l'amour joué", su allestamenti teatrali da parte di attori e tecnici della Comédie Française), al di là di meri ingranaggi economici, ne è uscita comunque la possibilità di spostare il baricentro dell'obiettivo su realtà dedite a divulgare l'arte. Il teatro di "La comédie française", la danza di "La danse - Le ballet de l'Opéra de Paris", il cabaret del "Crazy Horse". E la pittura della National Gallery di Londra.
Fin dalla sacrale imponenza della struttura, propria dei più importanti musei, "National Gallery" è gà un compendio del Wiseman europeo. Il film difatti ingloba - anche con dirette materializzazioni - un circuito che va dalla poesia alla musica, dalla danza al romanzo. Estrapolando alcune parole di una guida, che in merito ai dipinti di Poussin (con un rimando a Mantegna) fa riferimento ad un rimbalzo artistico tra pittura ed altre arti, si può dire che Wiseman abbia realizzato un documentario sul saper guardare l'arte oltre che le persone e che, di conseguenza, il risultato sia uno dei suoi film più esplicitamente metalinguistici, insieme al pur diverso "Blind" (sui non-vedenti dell'Institute for the Blind). In "National Gallery" vi è d'altronde un esemplare rimando al film del 1987: una classe di non vedenti alle prese con una lezione di storia dell'arte. Montata dopo non molti minuti, la sequenza apre in tal modo una porta d'ingresso al film tutto, una ipotetica indicazione sulle illimitate possibilità del vedere che può partire dalla concretezza del tatto e giungere alla potenza dell'astrazione.
La predilezione di Wiseman per una forma romanzata a discapito di un documento cronistico è anche qui caratteristica fondante di un lavoro di montaggio che può dirsi titanico: 170 ore di girato per tre mesi di riprese, condensate in poco meno di tre ore.
Il film si muove su due piani che viaggiano in parallelo. Da una parte c'è la conservazione di un patrimonio di inestimabile valore, dall'altro l'attrazione turistica.
I due fattori incorporano innumerevoli sottotracce e si intersecano ininterrottamente. Il frastagliato, problematico ma vitale territorio artistico pulsa già attraverso la visione dei dipinti conservati nel museo che racchiudono i bagagli di un'intera umanità, attraverso tematiche che vanno dalla fede all'amore, dalla gioia alla morte, dal mistero alla guerra. Wiseman riprende i dipinti in gran parte tagliando i contorni dall'immagine per soffermarsi sulle vivide palpitazioni che le opere sprigionano e che talvolta nascondono. Le sensazioni scaturite dalla visione delle opere mutano di volta in volta a seconda del momento, del visitatore, della distanza tra opera e sguardo; come sembra sottolineare una guida che analizzando Vermeer accenna alla possibilità da parte di un'opera d'arte di dialogare con il visitatore in modo sempre nuovo e di certo oggettivo sebbene rispetto ad altre arti - dal cinema al romanzo - scolpita in una sola immagine.
L'intenzione non è quella di farne un film educativo quanto piuttosto un percorso sull'atto del guardare, sulla possibilità di esplorare l'arte indipendentemente dall'età, dalla razza, dagli handicap. Dove in qualche modo le riunioni amministrative, le scelte di marketing e le varie rassegne passano sempre e comunque da un'umanità che nel film naviga per l'eternità in un monumentale contenitore. Se nell'"Arca russa" di Aleksandr Sokurov i personaggi storici prendevano forma dominando l'Ermitage con un perpetuo ritorno, il genere umano in "National Gallery" è qui e adesso e la carrellata finale sui volti immortalati su più dipinti indica l'inclinazione di Wiseman di porsi ad altezza d'uomo e osservare l'arte mentre si è osservati da essa (dal cinema, naturalmente). Quello di Frederick Wiseman è dunque un ruolo di documentarista-spettatore. La sua ricerca è il suo sguardo. Ciò che ne scaturisce è una visione tanto d'artista quanto di essere umano. La sua scoperta di un territorio, di un' istituzione, dell'umanità è la sua opera.
regia:
Frederick Wiseman
distribuzione:
Nexo Digital
durata:
180'
produzione:
Idéale Audience, Gallery Film
fotografia:
John Davey
montaggio:
Frederick Wiseman