Tentare di ricostruire in un film una personalità sfaccettata, enigmatica e sfuggente per definizione come quella di David Bowie era un’impresa pressoché impossibile. Brett Morgen, già attivo nell’ambito del docu-music con i precedenti “Kurt Cobain: Montage Of Heck” e “Crossfire Hurricane” (sui Rolling Stones), ha deciso allora di percorrere una strada radicalmente diversa: non un documentario, ma un’esperienza immersiva, un viaggio (e interstellare, of course) nella mente dell’Uomo che cadde sulla Terra, di colui che fu Ziggy Stardust, il Duca Bianco, il pierrot neoromantico di “Ashes To Ashes”, il rocker platinato di “Let’s Dance”, il detective cyber-industrial di “Outside” e mille altri volti ancora.
“Moonage Daydream” - per tre giorni nelle sale (26-27-28 settembre) dopo il fortunato passaggio a Cannes e l’antipasto nei cinema Imax - inizia proprio così: con un’infiltrazione nella mente dell’artista londinese. Come se agli spettatori fosse stato instillato il fatidico chip di Matrix per poter accedere ai labirintici percorsi mentali del Duca Bianco. A partire dalla doppia riflessione iniziale: la voce fuori campo di Bowie cita pensieri di Nietzsche sul senso della vita (“Tutte le persone, non ha importanza chi siano, sperano di apprezzare di più la vita, ma è cosa fai nella vita che è importante e non quanto tempo hai o cosa desideravi fare. La vita è fantastica”), poi, mentre scorrono liquide le note siderali di “Ian Fish, U.K. Heir” (da “The Buddha Of Suburbia”, 1993), si sofferma sul tempo, “una delle espressioni più complesse che la memoria abbia reso manifeste, qualcosa che sta a cavallo tra passato e futuro, senza mai essere del tutto presente… Ti trovi a lottare per comprendere quel mistero profondo e formidabile. Tutto è transitorio. Ha importanza? Mi interessa?”. Ma prima di poter anche solo immaginare una risposta, ci si ritrova catapultati su un’astronave alla velocità della luce, sulle cadenze martellanti di “Hallo Spaceboy” (1995), con gli occhi sgranati su quel caleidoscopio di suoni, immagini, colori e suggestioni che ci accompagnerà per i 140 minuti del film, tempestati di fotogrammi di film, canzoni, spezzoni di live e frammenti di interviste.
Per dipanare la matassa di quei cinque milioni di beni, disegni, registrazioni, film e riviste rari e mai visti prima ai quali ha potuto mettere mano accedendo alla collezione della David Bowie Estate, il regista norvegese ha compiuto un’altra scelta netta: affidarsi unicamente alla voce del protagonista, rinunciando all’immancabile corollario di testimonianze di amici, familiari e colleghi che caratterizza solitamente i documentari. Così, se da un lato si schiva quella ricostruzione agiografica per conto terzi che spesso appesantisce la narrazione, dall’altro si resta fedelmente ancorati a un unico punto di vista, quello dello stesso Bowie. Ma quella che può apparire una scelta fin troppo “ortodossa” e fedele alla linea – “Moonage Daydream” è anche l’unico film ufficialmente approvato dagli eredi – finisce invece col diventare la fonte di innumerevoli dubbi e contraddizioni. Tanti quanti sono quelli seminati dalla stessa vita dell’autore di “Changes”, che non ha mai esitato a rimettere in discussione i suoi convincimenti: dall’approccio musicale, sempre libero ma capace di improvvisi ribaltamenti di prospettiva (emblematica la svolta mainstream di “Let’s Dance” e del successivo, faraonico “Serious Moonlight Tour”) al rapporto con l’amore, inizialmente rifiutato e quindi abbracciato con convinzione nella felice unione con la top model Iman, sposata nel 1992. Un continuo venire a patti con la propria identità, interrogando e interrogandosi. Del resto, lo stesso Bowie – in una cruciale intervista-autoanalisi a metà film – si definisce “un collezionista”, portato quindi a dover incessantemente sintetizzare e rielaborare quell’inesauribile massa di influenze, filosofie e suggestioni. “Per tutta la vita ho detestato la banalità e ho voluto continuamente esplorare territori sconosciuti, fare conoscenze, incontrare le persone nel mondo, essere continuamente un altro. Martedì ero buddista e venerdì mi piaceva Nietzsche”, confessa a un certo punto”.
È Bowie, dunque, a guidare la mano di Morgen nell’esplorazione delle svariate forme d'arte sperimentate con voracità nel corso della sua vita: musica, cinema, danza, pittura, scultura, collage video e audio, sceneggiatura, recitazione e teatro dal vivo. Con una narrazione mai lineare (pochissime le date, niente didascalie o credits) che procede in un flusso immaginifico e sperimentale per libere associazioni, nel solco di quella “fascinazione per un linguaggio artistico che si occupa di frammenti e caos” che il dandy londinese ha più volte ribadito: “Alla fine, se devo trovare in tutto quello che ho fatto una linea, è questa, riflettere il caos, tentare di 'organizzarlo'”, chioserà nel lucido pensiero-testamento finale.
Esiste comunque una vaga linea cronologica, seppur spezzata dal frequente ping-pong tra passato e presente. Vediamo così il giovane David, orfano di padre e poco amato dalla madre, emergere dal sobborgo londinese di Brixton stimolato dal fratellastro Terry, che lo instrada sulla via dell’arte prima di abbandonarlo soccombendo alla schizofrenia. E assistiamo all’inesorabile cavalcata di una carriera giocata costantemente all’attacco, a partire dall’epopea glam, alla quale viene dato ampio risalto (del resto “Moonage Daydream” è anche il titolo di una delle più belle canzoni di quel periodo), con l’ineffabile Ziggy Stardust pronto a dribblare le interviste dei più o meno ingessati conduttori televisivi britannici (Dick Cavett, Russell Harty, Valerie Singleton, Mavis Nicholson, tra gli altri) con il suo corredo di risposte folgoranti ed enigmatiche, specie quelle sulla sua sessualità e sul rapporto con l’immagine. Un alieno androgino dall’improbabile make-up usato come passpartout per scardinare le convenzioni e gli steccati – anche del rock – attraverso le magniloquenti orchestrazioni glamour e l’ostentata bisessualità (anche nei concerti, con la memorabile scena live della “fellatio” alla chitarra di Mick Ronson). Poi, dopo il boom in Inghilterra - testimoniato anche dall’idolatria dei fan (di fatto gli unici a parlare, oltre a lui) - il periodo dell’odiata Los Angeles, incubatrice di spettri metropolitani e scorie tossiche, ma capace di “farlo crescere musicalmente”; quindi l’approdo terapeutico nella Berlino della trilogia con Brian Eno, dove poter rinascere indisturbato perché “a nessuno importava cosa facevi” e il ritorno in Inghilterra (inclusa una emozionante ricomparsa a Brixton dopo tanti anni), ma anche le grandi tournée mondiali degli anni 80 (Serious Moonlight, Glass Spider), quando l’abbraccio al mainstream rischiò di compromettere la sua integrità ai limiti di un “Rock’n’roll Suicide” (brano non a caso utilizzato in quel frangente), seguito dal faticoso percorso di ricostruzione artistica che passerà attraverso le nuove, temerarie scommesse degli anni 90 (“Outside”, “Earthling”) e dai successivi colpi di scena, fino al testamento artistico e spirituale di “Blackstar”.
Una full immersion di due ore e 20 minuti centrifugata da un montaggio forsennato e incessantemente scandita dalla musica (è uscita un'apposita colonna sonora in doppio cd) con ben 48 canzoni: da “Space Oddity” a “Life On Mars?”, da “Quicksand” a “Aladdin Sane”, da “Word On A Wing” a “Modern Love”, da “D.J.” ad “Ashes To Ashes”, da “Heroes” a una emozionante “Warszawa” dal vivo all’Isolar II con Carlos Alomar bandleader (tra i live inediti, anche il medley “The Jean Genie/Love Me Do”, registrato all'Hammersmith Odeon nel 1973, durante la tappa finale del tour di Ziggy Stardust). Brani manipolati, decostruiti e miscelati in nuovi mix attraverso un processo che richiama proprio la tecnica del cut-up di William Burroughs usata da Bowie negli anni 70 per comporre i suoi testi. Con un team stellare all'opera, comprendente Tony Visconti, storico produttore e braccio destro di Bowie, il sound mixer premio Oscar Paul Massey (“Bohemian Rhapsody”) e David Giammarco (“Ford v. Ferrari”); lo staff di sound design di John Warhurst e Nina Hartstone (“Bohemian Rhapsody”); e il produttore di VFX Stefan Nadelman (“Kurt Cobain: Montage Of Heck”).
Ma nell'ottica bowiana del “Sound And Vision”, non poteva certo mancare una cospicua componente cinematografica. Ecco allora scorrere anche le immagini di alcuni dei film che più hanno contribuito a forgiare l'universo dell'artista inglese: “Un cane andaluso”, “Scarpette Rosse”, “Nosferatu”, “8½”, “Arancia meccanica”, oltre ad alcune storiche incursioni del Duca Bianco nel grande schermo (da “L’uomo che cadde sulla terra” a “Furyo” e a “Miriam si sveglia a mezzanotte”), frammiste ai volti di maestri di vita come Jack Kerouac (fu proprio “Sulla strada” il romanzo che folgorò il giovane David), Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud, William Burroughs, Lou Reed, oltre ai quadri di Picasso, Otto Dix, Pollock, Meret Oppenheim, Francis Bacon. S'intravede Brian Eno, stranamente assente, invece, l'Iguana Iggy Pop.
Tutto ciò è confluito nel frullatore psichedelico di Morgen, che ha impiegato quattro anni per assemblare il film e altri diciotto mesi per progettare il paesaggio sonoro, le animazioni e la tavolozza dei colori. Ne è scaturita un’esperienza sensoriale audio-visiva, complessa, spiazzante, che non è detto accontenti gli spettatori “neutrali”, ma che certamente affascinerà i fan, perché “Moonage Daydream” assomiglia proprio al film che David Bowie avrebbe potuto concepire e girare su se stesso. Il film di un uomo incredibilmente affamato di vita, che dichiarava di aver usato se stesso come una tela e di aver chiuso ogni giornata della sua esperienza terrena pensando a ciò che era riuscito a ricevere e apprendere in quelle 24 ore. Un sogno ad occhi aperti per rivivere la “vita incredibile” di uno dei più affascinanti protagonisti della cultura e dell'arte del Novecento.
cast:
David Bowie
regia:
Brett Morgen
titolo originale:
Moonage Daydream
distribuzione:
Universal Picture
durata:
140'
produzione:
BMG, Live Nation Productions, Public Road Productions
sceneggiatura:
Brett Morgen
montaggio:
Brett Morgen
musiche:
Cathy Carapella, Tony Visconti, John Warhurst