Sappiamo solo un nome, del cane della madre (Alba Rohrwacher), che dà anche il titolo al film, "Marcel!", il primo dietro la macchina da presa per Jasmine Trinca. Poi c’è la figlia (Maayane Conti) della madre, il nonno silenzioso (Umberto Orsini), la nonna protettiva (Giovanna ralli), lo spasimante Dario Cantarelli), la cugina (Valentina Cervi), gli amici della cugina. I personaggi di un viaggio, che inizia un pomeriggio d’estate, quando Marcel scompare.
(s)Oggetto
Del Giudice non credeva "nella descrizione come forma di aderenza del mondo, ma […] nella descrizione come forma narrativa, perché solo la descrizione permette di tenere intrecciate indistinguibilità e reversibilità[1]". In "Marcel!" la descrizione è l’unica azione, il collante dell’oggettualità esasperata di madre e figlia, di cui il cane è vittima, oggetto-soggetto, un nome per tutto. I movimenti di camera (apparenti e non) dichiarati, rapidissimi, sono il metatesto di una descrizione della stasi, dell’oggetto non come evento epistemico, ma come luogo della relazione tra osservatore e osservato. "È un film sulla memoria[2]" dell’azione; resta l’oggetto, la sua reversibilità continua, che apre le possibilità del dialogo: la sigaretta tra l’alluce e il melluce, il pianoforte suonato coi piedi, il sassofono che stona, Marcel che scompare e riappare durante lo spettacolo che la madre fa nella piazza del quartiere.
Viene in mente Parmenide, sono i nomi etichetta delle cose, o viceversa? Ma in questo caso, conta "il processo creativo", uno dei titoli dei capitoli in cui Trinca ha scelto di dividere la storia. È un film tanto descrittivo quanto deittico, indica che cosa, più che dove – il nome è una collocazione temporale.
Non luogo a procedere
A metà girato, il timelapse tra giorno e notte è l’unica indicazione temporale del film. Un passaggio, la caratterista più importante di ogni non-luogo. Lo ribadisce la madre alla figlia, "te non dormi mai". Impossibile non pensare a "Favolacce", all’immaterialità del tempo, alla casualità (?) che l’epilogo conosca il mare, dove - la fisica ci ricorda – il tempo scorre più piano. Il cronotopo di "Marcel!" non è irrintracciabile, ma irrisolvibile, avvitato su sé stesso – il montaggio non va di pari passo e resta farraginoso, l’unica vera pecca in una pellicola coraggiosa. C’è, poi, a livello spaziale, il dis-topico della madre, capace di una cattiveria serissima, che proietta sulla figlia (pensiamo ai giochi d’ombre): non si tratta, quindi, di un non-luogo, per sottrazione, ma per accumulazione. L’idea è quella aristotelica, è tutto pieno, il vuoto newtoniano è una semplificazione computazionale; per dirla con Foucault, si tratta di un’eterotopia, cioè "uno spazio comune, ma assolutamente differente[3]".
Quel "domani" ripetuto più volte dalla figlia all’amico, ricorda il primo Dostoevskij, di "Povera gente". La figlia rimanda l’uscita con le amiche (e quando lo fa, capisce di aver fatto bene), rimanda la guerra con il suo giovane spasimante, "devo fare la spesa dice". Ecco l’azione che, talvolta, fa capolino, a sottolineare l’urgenza, ciò che nemmeno l’arte può mettere a tacere e che solo la morte risolve, "non c’è niente da mangiare nel mondo dei morti". E in "Marcel!" la morte è una delle voci più chiare, finalmente non rimossa, sia come motore della mancanza, della paura, sia come unico, vero determinante temporale.
Lazzara
Un film corale, più di quanto sembri, che alterna all’inquadratura strettissima, spesso chiusa in close up, campi larghi, corpi e pose plastiche, teatralissime. È un corpo prostetico più che performativo, che plasma l’inanimato, le facciate delle case sembrano volti, le luci oltre le finestre, occhi.
Se l’esuberanza della madre ricorda l’atmosfera fantastica di "Troppa grazia", il silenzio della figlia (molto deve al cinema muto di Chaplin) è quello di Lazzaro in "Lazzaro felice"; è prigioniera di una domanda: perché preferisce me a Marcel? Sorride solo alla fine, grazie al nonno, anche lui silenziosissimo. Non a caso, alla cugina della madre dice "che vengono dal posto senza risposte", perché ogni domanda genera una ricerca, e il suo personaggio è tutto alla ricerca: delle note giuste, della camicia più bella, della madre. Che sia lei la protagonista lo si capisce nella soggettiva finale, guarda la madre immergersi in acqua. Il punto di vista di Trinca è il suo ed è un ricordo dell’azione, vera o trasfigurata?
Exfanzia
L’infanzia era il terreno del già detto "Favolacce" ed è l’unico tempo, se così vogliamo dire, di "Marcel!", in cui Trinca sperimenta, ibrida e gioca; il messaggio è chiaro: se i generi esistono, sono indicazioni, non coordinate. La crudeltà della madre ("abbia!", dice alla figlia) definisce il cattivo luogo, attratto, fagocitato da non luogo, distopia, utopia diventano le tessere di una trasfigurazione intima, a tratti (forse) dispersiva, ma coerente. "Certi ragazzi per dormire vogliono il sonno acceso[4]" e in "Marcel!" la luce è sempre accesa.
[1] in https://www.jstor.org/stable/pdf/24009636.pdf
[2] https://www.youtube.com/watch?v=S7YWzJu-XhY
[3] M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis (2001).
[4] V. Magrelli, Exfanzia, Einaudi, 2022.
cast:
Umberto Orsini, Dario Cantarelli, Giuseppe Cederna, Giovanna Ralli, Maayane Conti, Valeria Golino, Paola Cortellesi, Alba Rohrwacher
regia:
Jasmine Trinca
distribuzione:
Vision Distribution
durata:
93'
produzione:
Cinemaundici, Totem Atelier con Rai Cinema in collaborazione con Phon Films
sceneggiatura:
Jasmine Trinca, Francesca Manieri
fotografia:
Daria d'Antonio
scenografie:
Ilaria Sadun
montaggio:
Chiara Russo
costumi:
Marta Passarini
musiche:
Matti Bye