Philippe Dubois definiva la fotografia come "traccia del reale", avventurandosi in una questione, quella della mimesis, che ha rappresentato uno dei primi grandi dibattiti teorici riferiti a quel medium. Quando si discuteva della fotografia come mezzo di riproduzione della realtà - e lo si faceva già nell'Ottocento, quando il cinema doveva ancora nascere - il movimento pittorialista tentò di elevare quel medium portandolo al rango della pittura e della scultura, dunque a quello tout court di prodotto artistico. Per poter ambire a quella condizione, la fotografia doveva rinunciare al suo rigore tecnico e utilizzare l'artificio stilistico.
Il dibattito sulla mimemis non poteva non essere trasposto in ambito cinematografico e in particolar modo sul documentario, che da sempre si distingue e si discosta dall'opera di finzione per la sua pressoché inevitabile associazione al reale. Il dibattito sul cinema come rappresentazione del reale è ovviamente (e inevitabilmente) successivo, ma si sviluppò comunque relativamente presto, se si pensa al ruolo prevalentemente documentaristico avuto dal protocinema e dal cinema degli esordi.
In tale duplice (e parallelo) contesto teorico, un procedimento come quello della stop motion, che col tempo ha trasformato la sua natura pragmatica in una marca stilistica, si pone necessariamente come un ponte tra i due media nel delineare un minimo comune denominatore tra la fotografia quale "traccia del reale" che prova a farsi arte e il cinema quale arte che talvolta prova a farsi "specchio del reale".
Del resto la stop motion - e soprattutto quella che non rinuncia a manifestarsi in maniera evidente - è la tecnica che più mette a nudo l'essenza del cinema come accostamento di un numero definito di fotogrammi, mostrando anche agli occhi del comune spettatore l'intervallo tra uno scatto e l'altro, seppur relegato nella effimera tempistica della frazione di secondo.
Lo aveva capito (e sfruttato) Dziga Vertov in "L'uomo con la macchina da presa", nella suggestiva sequenza della cinepresa semovente. E lo ha compreso Dean Fleischer Camp in "Marcel the Shell", film che tra le sue tecniche annovera appunto la stop motion, affiancata dall'animazione digitale e dal live action. Con il passo uno sono riprodotti i movimenti nello spazio della conchiglia Marcel, protagonista del film: la stop motion, in questo caso, è il procedimento che permette di accostare fotogrammi (e fotografie) che ritraggono la conchiglia Marcel in un determinato momento e in un determinato spazio. È l'elemento che, frammentando in maniera palese la continuità spazio-temporale che il cinema dovrebbe invero garantire (il cinema ha il compito di "risolvere immagini discontinue in sequenze continue", diceva Walter Benjamin), ci consente di riflettere sul film e sul suo rapporto con la realtà.
Il primo degli aspetti che rendono "Marcel the Shell" uno straordinario film teorico - forse inconsapevolmente o forse no, come dimostra l'interessantissimo lavoro svolto sul linguaggio, di cui si dirà più oltre - è la commistione tra finzione e realtà, in un'opera chiaramente finzionale che si colloca all'interno di un format prevalentemente (e che si presume) realistico.
"Marcel the Shell" sembra porsi in maniera evidente come un mockumentary, quel sottogenere del documentario che descrive con le forme di quest'ultimo una storia inventata. Ma è davvero così? Non è forse il film, in fondo, un documentario sul personaggio Marcel e sul modo in cui esso diventa protagonista dell'opera che stiamo guardando? Non è forse il film di Fleischer Camp, in buona sostanza, un documentario sulla creazione artistica?
Ebbene sì, lo è chiaramente e ben più di quanto possa esserlo un banale making-of, format che ricostruisce il processo creativo da un punto di vista prevalentemente tecnico-stilistico, tralasciando però spesso, inevitabilmente, la creazione intesa come ideazione creativa, cosa che invece fa "Marcel the Shell".
Parafrasando Walter Benjamin, il medium atto a riprodurre (che sia il cinema o la fotografia) è parte della realtà che esso stesso descrive: un concetto che può essere perfettamente calato sull'opera in questione, in considerazione della scelta di un'esplicita interazione tra medium e soggetto rappresentato. In tal senso, Fleischer Camp porta nella contemporaneità l'insegnamento di Dziga Vertov, e lo fa mettendosi in gioco quale regista interagente e autoproclamandosi operatore-autore-creatore. Da un punto di vista narrativo, lo fa mettendo in scena la propria regressione infantile: di fatto il regista sta giocando nella sua cameretta con un amico immaginario; costruisce per esso - e per se stesso, con ampi spunti autobiografici - una storia (banale, se vogliamo; stereotipata, se vogliamo; ma non è questo il punto); si sbizzarrisce con gli artifici creativi e con gli stratagemmi in stile Art Attack (dal rover-pallina da tennis all'arrampicata sui muri intingendo le scarpe nel miele); e intanto filma tutto con la propria videocamera, diario digitale, multimediale e tutt'altro che segreto (e anzi fatto per essere condiviso) che ormai da tempo ha preso il posto dei diari analogici, cartacei, del tutto personali. Insomma, Fleischer Camp documenta il proprio atto creativo.
Il secondo degli aspetti che fa di "Marcel the Shell" uno stimolante film teorico è quello relativo al linguaggio. Il film adotta palesemente - e in certi casi smaccatamente - i codici del cinema del reale, in particolare di quelle opere in cui la funzione dell'operatore/regista/autore è tutt'altro che neutra e neutrale, diventando esso stesso partecipe (in qualità di intervistatore piuttosto che di vero e proprio personaggio, o ancora come deus ex machina interagente). Esattamente quel che faceva Vertov circa un secolo fa, con la differenza che Fleischer Camp ha la possibilità di utilizzare il sonoro e quindi non ha bisogno (come Vertov) di far sentire la propria presenza mostrandosi all'interno dell'inquadratura con la propria cinepresa.
Il film di Fleischer Camp è un vero e proprio bignami sul cinema del reale, di cui vengono passati in rassegna le tecniche e gli strumenti in maniera quasi didattica (e quasi esaustiva e compilativa), andando così a riempire con gli escamotage formali un minutaggio sicuramente importante (ancor di più se si va a ricordare che "Marcel the Shell" nasce - nel 2010 - come cortometraggio di pochi minuti, che ebbe anche due sequel di analoga durata).
Alcuni esempi (solo alcuni) sono:
- i protagonisti del documentario, vale a dire l'intervistato (Marcel) e l'intervistatore (Dean), effettuano il classico check prima di cominciare e dare il via alle riprese;
- Marcel chiede chiarimenti sulle domande, come a dare l'idea che nulla sia preparato;
- Dean dice che la sua voce non deve sentirsi, ma già la sentivamo e la sentiamo mentre pronuncia questa stessa frase, segno che il materiale è (fittiziamente) grezzo, da sottoporre a montaggio e post-produzione;
- Marcel fa errori di pronuncia (persino del proprio nome!), si impappina, ricomincia;
- Marcel chiede cosa deve fare Dean del materiale che sta girando (risposta: un documentario da mettere online);
- Marcel chiede se in quel preciso istante Dean stia registrando (e ricevendo una risposta affermativa esprime stupore);
- Dean ride quando Marcel, in maniera apparentemente inaspettata, dice una cosa buffa (Marcel, per fare lo spago, utilizza peli ricci recuperati dal fondo di una vasca - probabilmente, quindi, i peli pubici di Dean, da cui le sue risate);
- Marcel fa domande personali a Dean;
- vi sono più tentativi per ottenere il risultato da filmare (il lancio del frutto nel rifugio di Marcel);
- giunge un ospite inatteso (l'addetta alle pulizie di airbnb);
- Dean molla improvvisamente la videocamera e insegue il cane che a sua volta ha iniziato a rincorrere, abbaiando, il "rover" di Marcel;
- a distanza dalla videocamera, Marcel spiega a nonna Connie (l'unico altro personaggio-conchiglia che appare, prima del finale) che finirà nelle riprese; nonna Connie chiede se deve andarsene;
- nonna Connie si dimentica cosa sta facendo Dean; Marcel glielo ripete;
- Marcel racconta un fatto del passato, che viene ricostruito in stile docu-fiction;
- Dean passa un fazzoletto a Marcel, che si è commosso; nel finale, in maniera analoga, sono i genitori di Marcel a commuoversi, e l'intervista è sospesa;
- vi sono stacchi di montaggio netti e intervallati da una transizione a schermo nero piuttosto evidente;
- vi è a tratti una mobilità esasperata della videocamera, come a voler mostrare in maniera inequivocabile la sua funzione di presa diretta;
- vi sono addirittura frammenti di reportage investigativo: la chiamata all'agente immobiliare che dice di non poter fornire dati personali;
- abbiamo poi le classiche interviste in stile talking head (quando nonna Connie commenta ciò che sta accadendo, oppure nel finale, con i genitori di Marcel);
- Marcel esprime nervosismo davanti alla telecamera (di Dean) per l'imminente intervista televisiva;
- abbiamo poi il making-of dell'intervista (che non è il making-of del documentario, si noti bene);
- abbiamo l'imprevisto organizzativo durante le riprese (il vicino di casa chiede a Dean di scendere dall'albero da cui sta filmando - ancora una volta uno spunto à la Vertov).
C'è in questa ostinata e quasi didascalica carrellata di espedienti formali tipici del cinema del reale la volontà stessa dell'opera di autoproclamarsi realtà: lo strumento tecnico e l'escamotage stilistico diventano portali che donano al profilmico una condizione di realtà. Non è un caso che Marcel dica alla nonna Connie, mentre le sta spiegando quel che sta facendo Dean, che quel documentario "è sulla verità".
In un'altra breve scena, particolarmente significativa, Marcel si impossessa della videocamera per filmare colui che lo sta filmando, in un emblematico capovolgimento di ruoli. Questo momento, in particolare, è un chiaro esempio di come il linguaggio e la tecnica (la forma, dunque) possano farsi sostanza teorico-narrativa. "Marcel the Shell" può essere analizzato, infatti, secondo una duplice prospettiva: la prospettiva narrativa, quella di Marcel quale personaggio senziente in un contesto extra-ordinario, un espediente per nulla nuovo nel mondo delle creazioni intellettuali (la prospettiva avulsa per descrivere una quotidianità ordinaria per alcuni e straordinaria per altri, con le relative contraddizioni, è un escamotage filosofico - dal Micromega di Voltaire all'Usbek delle "Lettere persiane" di Montesquieu - e letterario - da Gulliver a Pinocchio - piuttosto ricorrente); e la prospettiva (non narrativa ma) visuale, quella del creatore che guarda la sua creatura e così ce la consegna, dal suo personale punto di vista. È sotto questo profilo che Marcel compie un balzo concettuale importantissimo impossessandosi dello strumento che registra (e dunque del medium) per tentare di rovesciare quella prospettiva: per un momento Marcel diventa l'uomo (rectius: la conchiglia) con la macchina da presa.
Vi è poi un terzo aspetto interessante nel lungometraggio di Fleischer Camp, anch'esso dai forti risvolti teorici. Un aspetto in realtà inflazionato nel prodotto audiovisivo contemporaneo, ma che del resto in "Marcell the Shell" è soltanto accessorio: l'interazione tra i media. Quella, già accennata, tra fotografia e cinema, che si sublima nel procedimento della stop motion. E quella diegetica tra vecchi e nuovi media, tra la televisione che irrompe per testimoniare e documentare (ecco la mise en abyme: il cinema che documenta la tv che documenta) e i social media che agiscono invece su un piano - per certi versi anarchico e sfuggente - di commento, di presunto approfondimento, di condivisione.
"Marcel the Shell" è dunque, in definitiva, un interessantissimo film sul cinema, sulla fotografia, sulla realtà che quei media provano a rappresentare, ma soprattutto sulla creazione. Grierson parlava del documentario come "elaborazione creativa della realtà". Qui è la stessa elaborazione creativa a farsi realtà.
cast:
Dean Fleischer Camp, Jenny Slate, Isabella Rossellini, Lesley Stahl
regia:
Dean Fleischer Camp
titolo originale:
Marcel the Shell with Shoes On
distribuzione:
Lucky Red, Universal Pictures
durata:
90'
produzione:
Cinereach, You Want I Should LLC., Human Woman Inc., Sunbeam TV & Films, Chiodo Bros. Productions
sceneggiatura:
Dean Fleischer Camp, Jenny Slate, Nick Paley
fotografia:
Bianca Cline
scenografie:
Liz Toonkel
montaggio:
Dean Fleischer Camp, Nick Paley
costumi:
Jamie Catino
musiche:
Disasterpeace