Il resoconto di una giornata qualunque di un cine-operatore (Michajl Kaufman) che vagabonda senza scopo apparente in città alla ricerca di tranche de vie da filmare (e montare).
Kaufman è solo, in apparenza, ma la prima immagine svela non solo la cinepresa che lo segue ma la stessa messa in quadro, una sovrimpressione, che di fatto inficia il discorso iniziale di cinema puro che si corona con le scene di taglia e cuci alla moviola di Elisaveta Svilova (se stessa).
Data per scontata la volontarietà dell'azione, la messa in luce di una contraddizione così evidente rende questo capolavoro una sorta di pi greco, una materia irriducibile e un discorso virtualmente infinito e senza via d'uscita.
Apice di un artista che visse la prassi della Rivoluzione Russa e l'inquietudine delle Avanguardie, il film assume la sua consistenza storica più in quel che non dice che in quel che mostra. Sono noti gli studi di Vertov sul cine-orecchio (che tanto devono al nostro Luigi Russolo). Eppure nel nostro film non portano da nessuno parte, non riescono a sintetizzare la polifonia degli stati emotivi, l'inerzia iniziale del riposo, la frenesia del lavoro, la quiete della ricreazione.
Ancora più problematica è la messa in forma del cine-occhio, la cui immagine emblematica è quel balletto improvvisato tra la giovane che si sveglia e sbatte le palpebre per mettere a fuoco il nuovo giorno, un movimento troppo complesso per le possibilità della sia pur volenterosa cinepresa con i suoi movimenti di apertura/chiusura dell'obiettivo in carenza/sovrabbondanza di luce.
Così, rattrista anche l'ultima immagine del film che è un lento restringimento dell'otturatore fino alla chiusura totale che va a corrispondere con la dissolvenza in nero che è la fine del film. Al di là di questo, comunque, il film di Vertov è un racconto di tipo dichiarativo, non semplicemente una manifestazione artistica del marxismo-leninismo ma esso stesso scolio della nuova dialettica delle cose e delle loro relazioni.
Se l'inizio funge da prologo del tipo "mentre la città dorme", qualcuno sveglio c'è: Vertov che riprende Kaufman, Kaufman che riprende la stasi e una serie di bambole con gli occhi sbarrati di veglia eterna, angosciante e quasi rassegnata.
Ci si risveglia da tutte le posizioni: i barboni dalle panchine, le giovani donne dai loro letti, i pompieri direttamente dai loro autocarri che sfrecciano per le strade e fungono essi stessi da sveglia residua per i sonni più ostinati.
I funerali incrociano i matrimoni, le ambulanze coprono i vagiti dei neonati in un tentativo di registrare la sinfonia della metropoli che non potendo essere simultanea come è nella realtà cerca di seguire le leggi biologiche di selezione dell'ascolto.
Fu facile accusare Vertov di formalismo e anche di decadentismo.
In effetti Vertov fu formalista (ma meglio: avanguardista) come lo furono i migliori della sua generazione, compreso quell'Ejzentejn cui spesso è contrapposto nella guerra di religione tra documentario e finzione, montaggio e messa in quadro. In questo senso fu formalista
Chaplin (qui omaggiato, lui e Ferdinand Leger, con un "balletto meccanico" della cinepresa) che girò quattro film muti nonostante l'avvento del sonoro, campo in cui si distinse ugualmente.
Fu formalista
Murnau che come lui volle girare il film assoluto senza didascalie.
Fu formalista Walter Ruttmann che col suo "Acciaio" (1934) fu forse quello che più gli si avvicinò nelle intenzioni, qualche anno dopo.
Riguardo l'accusa di decadentismo, essa può essere sintetizzata in una domanda che spesso i suoi detrattori gli rivolsero: "In che cosa una città dell'Uomo Nuovo, della Russia Socialista, si distingue da una qualsiasi capitalistica e decadente metropoli occidentale? Noi vediamo barboni, industrie, manicure e canzonette che passano alla radio. Dov'è l'Uomo Nuovo?".
La risposta in realtà c'è ma Vertov non potè mai dichiararla perché sarebbe stata la sua condanna. Come Majakovskji, Esenin e tanti altri, Vertov credeva fermamente nel Comunismo e la sua storia è lì a dirlo. Nel nostro film non esita a far alzare l'obiettivo di Kaufman su di un monumento dove, quasi occultato, è posto un ritratto di Lenin. Lenin la cui commemorazione gli fece girare forse il suo film più bello ("Tre canti su Lenin", 1934) o quantomeno quello più sentito, più lirico.
Vertov è un leninista convinto, convinto della Futura Umanità e dell'esportazione dell'Idea al di là del sesto delle terre emerse entro cui si era racchiuso ("La sesta parte del mondo", 1926).
Tale idea fu sintetizzata da Lenin in una formula tanto elementare quanto indecifrabile, misteriosa, secondo cui il Comunismo sarebbe nient'altro che la somma della Direzione (Soviet) e l'Elettricità. Alcuni anni prima Albert Einstein aveva reso famosa quella dell'equivalenza di Massa e Energia, altrettanto misteriosa. È questo l'elemento che irrompe prepotentemente nel film di Vertov, l'Energia. A rivederlo in quest'ottica - e tralasciando il campo metalinguistico che è quello che storicamente invecchia prima e peggio - nel nostro film non vediamo altro che focolai di energia che si accendono e si aggregano.
Che si tratti della semplice Gravità che tiene le cose al loro posto, una sorta di sentinella al sonno, o di quella elettro-chimica che porta al risveglio dei corpi, o quella meccanica scaturita dall'uomo e emulantelo, fino a quella bio-fisica che si districa tra le corvée del lavoro ma soprattutto alle famose otto ore di svago che occupano metà del film e che sono dedicate fondamentalmente all'esercizio fisico. In questo, magari con una certa ingenuità, Vertov fu leninista in un tempo che non lo consentiva più, alla vigilia della III Internazionale che portò alla ribalta il Realismo Socialista, la "bio-ingegneria delle anime", come la battezzò Stalin, che avrebbe forgiato l'Uomo Vivo, una forza (quindi energia) anticapitalistica che divenne essa stessa scimmia del tanto vituperato capitalismo. Ma questa è un'altra storia.
Per restare nella nostra storia non possiamo che ricordare la triste parabola di Vertov che proprio dall'elegia su Lenin avrà sempre più difficoltà a trovare fondi e soggetti e i cui film posteriori non furono mai proiettati ma anzi nascosti nei più inaccessibili archivi.
Recentemente è stato ritrovato e restaurato "Tre eroine" (1938) e altri ancora ne verranno.