Autore di una scelta di vita davvero radicale, Michael Rowe applica la stessa misura anche per quello che riguarda il suo metodo cinematografico. Australiano trapiantato da circa vent'anni a Città del Messico, Rowe ha esordito nel 2010 ottenendo premi e consensi per "
Año Bisiesto". Di lui si parlò non solo per le qualità artistiche ma anche, o forse soprattutto, per la crudezza con cui decise di ritrarre la solitudine della protagonista, una giovane donna che sublima il malessere esistenziale praticando sesso estremo. Pruderie e sensazionalismo la fecero naturalmente da padrone nelle pagine dei giornali, ma al di là di ogni giudizio chi ebbe modo di vedere il film non potè fare a meno di constatarne umanesimo e rigore della messinscena. Caratteristiche che si ripetono anche nel suo secondo film, "Manto acuifero" appena passato nel concorso ufficiale del festival, e incentrato sulla figura di Carolina, detta Caro, una bambina di sette anni che si è appena trasferita nella casa del nuovo compagno della madre.
Carolina soffre per la separazione dei genitori e respinge qualsiasi tentativo di avvicinamento da parte dell'uomo, preferendo passare la maggior parte del tempo a giocare in giardino dove il suo bisogno d'amore si sfoga prendendosi cura della fauna locale. Tutto sembra sotto controllo ma a poco a poco l'umore della bambina incomincia a influenzare la madre, ancora sensibile ai ricordi del recente passato. In questo clima le sicurezze incominciano a vacillare e la natura dei tre personaggi inizia lentamente a rivelarsi. Curiosamente simile nelle atmosfere e nel linguaggio cinematografico al film che ha aperto il concorso di quest'anno ("
I Am Not Him"), il film di Michael Rowe arriva ad essere ancora più estremo nell'impostazione del suo discorso, adottando uno stile che piazza la cinepresa ad altezza bambina, e da li non la muove per tutta la durata della storia.
Filmando l'idea di una separazione prima di tutto fisica, che riguarda il distacco di una bambina dal proprio padre (avvenuto fuori campo), e che più tardi è destinato a trasformarsi in una lontananza psicologica, Rowe sceglie di dividere visivamente i due mondi e di fare sentire qualsiasi tentativo di avvicinamento da parte del patrigno come un atto di invasione, se non di violenza; come testimonia uno dei passaggi più significativi, in cui lo spazio vitale che la bambina si è ritagliata arredando a sua misura un pozzo abbandonato risulta come lacerato dall'entrata in campo del compagno della moglie che la sta per sgridare. Siamo in un certo senso dalle parti di "Año Bisiesto", per la maniera di rappresentare i contatti con il mondo esterno, che nel caso di Laura, il personaggio di quel film, sono fonte di dolore e sofferenza (non solo le telefonate con il datore di lavoro, ma gli incontri sessuali a base di sesso sadomaso).
In "Manto acuifero" l'afflizione è come se fosse impressa nelle immagini e pure nelle inquadrature, che a fronte di una pulizia che il lavoro precedente non aveva - Laura è adulta e già corrotta, Caro è giovane e innocente - risultano nette, ma non meno feroci nell'imporre una dialettica che utilizza sfocature e punti di vista per creare una linea di demarcazione, invisibile ma non meno eloquente, tra la piccola protagonista e il resto della famiglia. Alla ricerca di una verità emozionale, Rowe procede in maniera antinaturalista, evitando di manipolare lo spettatore o di enfatizzare gli aspetti più drammatici della vicenda. Con uno sguardo da entomologo, peraltro sintetizzato nell'osservazione che Caro rivolge al mondo animale, viviseziona l'animo umano risalendo all'essenza da una base concreta, fatta di azioni (la bambina è ripresa sempre in movimento e impegnata a dare seguito alle sue fantasie) e di avvenimenti minuti, ma non per questo meno indicativi.
Scevro da qualsiasi tipo di sentimentalismo, Rowe sfata i luoghi comuni di un'infanzia buona e inconsapevole mostrandoci a più riprese Caro reagire come un barometro alle parole rubate alle discussioni dei genitori, e poi spiazzandoci con le immagini che finiscono nella dissolvenza che chiude la storia, in cui si suggella il climax di un realismo emotivo che non viene mai meno. Al termine della proiezione il pubblico è rimasto perplesso dalla lentezza del film esprimendo il suo dissenso con qualche fischio. Per chi scrive il film è già nella lista dei papabili al premio finale.
11/11/2013