Vincitore della sezione Orizzonti a Venezia 2018, esce adesso nelle sale, grazie all’ottima iniziativa della Mariposa Cinematografica (e col patrocinio di Amnesty International) "Manta Ray", esordio nel lungometraggio del thailandese Phuttiphong Aroonpheng (un passato da direttore della fotografia e alcuni apprezzati cortometraggi all’attivo). E’ un’opera suggestiva e dolorosa che ha il grande merito di portare l’attenzione, seppure in maniera fortemente simbolica e surreale, sulla tragedia dei Rohingya, la popolazione di religione islamica perseguitata dal governo birmano, alla quale Ai Wei Wei aveva dedicato uno dei segmenti del suo "Human Flow". Anche se non vengono mai menzionati nel film, la dedica che appare all’inizio e la citazione nei titoli di coda aiutano a capire a cosa la parabola di persone in fuga alla ricerca di una nuova casa stia alludendo.
In effetti "Manta Ray", con i suoi dialoghi molto scarni (la prima battuta arriva a dieci minuti dall’inizio e anche la parte finale è priva di parlato), comunica attraverso immagini e situazioni dal deciso contenuto metaforico, a partire dalla manta del titolo, il pesce che nuota orientandosi con la luce, un po’ come i rifugiati che arrivano in Thailandia dalla vicina Birmania, senza meta.
Al centro della storia, ambientata in un località di mare vicino alla foresta, due uomini. Uno fa il pescatore ma si occupa anche di seppellire nel bosco i cadaveri dei migranti uccisi durante la fuga e proprio mentre si sta occupando di questo si imbatte in un uomo che è stato ferito. Generosamente lo porta a casa e gli presta soccorso. Grazie alle sue cure amorevoli, il ferito si riprende. Il pescatore lo ribattezza Thongchai (in omaggio alla gloria locale del pop, Bird Thongchai), lo ospita, gli insegna il proprio mestiere e gli racconta tutto del luogo che per Thongchai potrebbe diventare una nuova casa. Ad esempio gli parla delle pietre preziose che riflettono ma che al tempo stesso sono attratte dalla luce. Il pescatore è un uomo solo da quando la moglie se ne è andata a vivere con un militare e con Thongchai inizia una convivenza, frutto di solidarietà, amicizia e forse anche di un affetto più profondo (il film da questo punto di vista è poco categorico e oltre gli scambi di sguardi non andiamo). Come nelle opere di Apichatpong Weerasethakul, vero e proprio nume tutelare del cinema alternativo thai (non a caso al montaggio ritroviamo Lee Chatametikool che in molte occasioni ha lavorato col regista dello Zio Boonme), avviene poi qualcosa che scardina gli equilibri. Il pescatore durante una partita di pesca scompare e di lui si perdono le tracce. Thongchai resta da solo ereditando di fatto la sua casa e sostituendolo nel lavoro. Inoltre fa pure ritorno Saijai, la moglie fedifraga del pescatore (a interpretarla è la cantante Rasmee Wayrana, al debutto come attrice, esordio che le consente di mettere i suoi talenti canori abilmente a disposizione del regista Aroopheng). La donna non pare molto sconvolta dalla presenza di Thongchai, del resto non le mancano le preoccupazioni; è incinta e l’amante l’ha cacciata, quindi ha pensato bene di tornarsene dal marito e riprendere il lavoro da operaia nell’industria ittica locale. Thongchai, che non pronuncia mai neanche una parola, e la donna diventano una coppia, lei si prende cura di lui (molto efficace la sequenza del massaggio) e fa sì che prenda le sembianze, non solo il posto, del marito scomparso. Il pescatore però fa ritorno. E’ molto cambiato, è ancor più taciturno di prima e porta visibilmente addosso i segni delle sue disavventure. Il film non ci fa capire di preciso cosa gli sia successo o in cosa sia stato coinvolto ma lo vediamo compiere anche gesti criminosi. Del resto "Manta Ray" è un’opera che non vuole certo essere plot oriented e lo sviluppo della storia è affidato più che altro alle suggestioni che le varie situazioni suscitano nello spettatore, come ad esempio la sequenza girata all’interno di una nave militare abbandonata o l’immagine, che apre e chiude il film, di un uomo misterioso che gira per la foresta con un fucile in mano e col corpo completamente ricoperto di lucine intermittenti, le stesse con le quali il pescatore ha riempito la propria casa. Anche se è difficile darne un’interpretazione precisa, questa figura potrebbe incarnare gli aguzzini che danno la caccia ai migranti in fuga e la foresta ancora una volta è un luogo in cui si incontrano varie dimensioni e nella quale dimorano gli spiriti delle persone che hanno perso la vita durante la fuga, persone che forse, come le mante, erano attratte da luci colorate, come quelle delle quali l’uomo si è ricoperto (effetto realizzato con grande economia ma non privo di efficacia). Il dramma di Thongchai, che poteva trovare un posto nel mondo solo sostituendosi a qualcun altro e costretto ad andare via quando ritorna la persona cui si era sostituito (e significativamente il pescatore non mostra più nei suoi confronti lo slancio di prima), con le vecchie ferite già pronte a riaprirsi, si unisce a quello degli spiriti della foresta, ora diventata una sorta di cimitero clandestino, che il regista esordiente, sapientemente aiutato dalla fotografia di Nawarophaat Rungphiboonsophit, ci mostra in notturna brillare di mille luci, come una versione non animata del capolavoro di Isao Takahata "Una tomba per le lucciole".
Film misterioso e mai banale, "Manta Ray" ha soprattutto il grande merito, nonostante l’ermetismo di fondo, di far capire il dramma di una popolazione attraverso spunti visivi e sonore (onore alle musiche di Christine Ott e Mathieu Gabry), meglio di quanto non siano spesso in grado di fare opere più convenzionali e apparentemente più "semplici".
cast:
Wanlop Rungkumjad, Aphisit Hama, Ramsee Wayrana, Sanit Pasingchop, Kamjorn Sankwan, Tawan Hirunyapong
regia:
Phuttiphong Aroonpheng
titolo originale:
Kraben rahu
distribuzione:
Mariposa Cinematografica
durata:
105'
produzione:
Diversion
sceneggiatura:
Phuttiphong Aroonpheng
fotografia:
Nawarophaat Rungphiboonsophit
scenografie:
Sarawut Krawnamyen
montaggio:
Lee Chatametikool, Harin Paesongthai
costumi:
Chatchai Chaiyon
musiche:
Christine Ott, Mathieu Gabry