Scrivere anche solo un accenno di trama, equivale a uno spoiler per chi guarda e un torto ai suoi realizzatori. Non stiamo parlando di un film di Christopher Nolan, ma di "Mai raramente a volte sempre" di Eliza Hittman, vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Berlino. Prima ancora che compaia il cartello con il criptico titolo (di cui solo più avanti, in maniera del tutto inaspettata, scopriremo a cosa si riferisca), siamo introdotti, senza mediazioni, nel subito riconoscibile microcosmo della rurale provincia americana. All’interno di un locale country, alcuni ragazzi si alternano sul palco esibendosi in prove canore, di fronte ad un ampio pubblico. In molti film recenti (da "Mommy" di Dolan a "Storia di un matrimonio" di Baumbach), intonare un noto brano (in versione karaoke o suonandolo al piano) si rivela occasione privilegiata per il protagonista di instaurare una comunicazione più immediata con chi sta ascoltando, per aprirsi nei suoi confronti e rivelare qualcosa di altrimenti indicibile. Qui, la dinamica rappresenta il primissimo contatto con Autumn (Sidney Flanigan), che canta con passione e trasporto emotivo, per poi rimanere senza parole a tavola con la famiglia, quando il padre è riluttante a farle i complimenti. A partire dalle prime scene ci vengono fornite ben poche informazioni sul suo conto; ma anche quando scopriamo il pretesto che fa innescare la narrazione, la sua personalità rimane introversa e sfuggente. La macchina da presa si colloca alla sua altezza, a volte fino a schiacciarsi sul suo volto, spesso con bruschi movimenti, che ci trasmettono il suo disorientamento spaziale, o attraverso inquadrature di sbieco che ne mettono in risalto il profilo o i capelli. Trasportati nel suo universo senza possibilità di uscirne, la seguiamo nelle sue protratte camminate, nei momenti in cui rimane a lungo distesa, muta e pensierosa, sul letto.
Lungo l’intera vicenda, la prospettiva adottata è sempre femminile, impostata prevalentemente a partire dalle direttrici dello sguardo della protagonista. Il maschio è assente (il fantasma del partner di Autumn, fondamentale per il plot ma mai in scena né mai nominato o evocato) o in posizione ambigua, come il padre della ragazza, a cui sembra riservare solo commenti sprezzanti, e lo sconosciuto che, al supermercato dove lavora come cassiera, fa esplicite avances alla cugina Skylar (Talia Ryder). Durante il viaggio in bus, le due vengono subito approcciate da un coetaneo, che non esita a invitarle ad un party. Sua è l’unica inquadratura che assume esplicitamente il punto di vista opposto: non a caso, una soggettiva del fondoschiena di Skylar, piegata per tirare la palla da bowling. Tra donne, invece, c’è possibilità di intesa, di rapporto sincero: con la dottoressa che l’assiste nella sua difficile scelta, ponendosi come figura vicina e stabilendo da subito una forte empatia; con la cugina, che l’accompagna e le sta costantemente accanto. Ma anche con quest’ultima a dominare sono i silenzi, i non detti, il mutismo che caratterizza Autumn, che non riuscirà mai a svincolarsi dai lacci del turbamento esistenziale di cui è in balia la sua interiorità. L’amicizia femminile costituisce un riparo dall’opprimente società (e soprattutto dal maschio prevaricatore), rimanendo però instabile e precario.
Il tema al centro delle vicende, particolarmente delicato, è trattato da Hittman in modo intimo ma schietto, senza i fronzoli, le strizzatine d’occhio, il gusto pop, solitamente associato al marchio "Sundance". Il riferimento più immediato è "Juno" di Jason Reitman: l’impressione è che la regista attui nei suoi confronti un diretto "asciugamento", per arrivare al vero cuore della questione, evitando qualunque compromesso per compiacere il grande pubblico. L’approccio è assunto fino in fondo, mostrandoci tutti i diversi passaggi del percorso della protagonista, anche scorci solitamente preclusi. L’esito è così di forte impatto per lo spettatore, catapultato e fatto partecipe della sua parabola senza alcun appiglio consolatorio a cui aggrapparsi, ma tale anche da creare, ad un certo punto, un cortocircuito tra attrice/personaggio. Filmata in primo piano in una lunga sequenza in cui deve rispondere a domande personali, Autumn diventa preda di una sofferta commozione, a stento si concede delle lacrime: le emozioni scaturite sembrano essere del tutto autentiche, come specchio della difficoltà e dall’abnegazione con cui la sua interprete, giovane cantante al debutto sul grande schermo, veste i panni di un personaggio così fragile. In sintonia con il precedente "It felt like love": l’inizio in medias res, e soprattutto i titoli di coda che arrivano ex abrupto, nel bel mezzo di un momento di passaggio. Nessuna conclusione definitiva o happy end (quanto la dolente consapevolezza di aver assistito unicamente ad una breve parentesi della sua vita), nessun coming of age, nessuna facile e appagante lezione morale. Solo il senso di afflizione e angoscia delle due ragazze che, sole ed abbandonate al proprio destino, continuano ad arrancare senza certezze sul proprio futuro.
cast:
Sidney Flanigan, Talia Ryder, Théodore Pellerin
regia:
Eliza Hittman
titolo originale:
Never Rarely Sometimes Always
distribuzione:
Focus Features, Universal Pictures
durata:
101'
produzione:
BBC Films, Pastel, Tango Entertainment, Mutressa Movies, Cinereach
sceneggiatura:
Eliza Hittman
fotografia:
Hélène Louvart
montaggio:
Scott Cummings
musiche:
Julia Holter