È un diretto ma debole sguardo in macchina, collocato nella prima sequenza, a costituire il biglietto d'ingresso di "It Felt Like Love" e il suo chiaro "manifesto". Invito di chi guarda, la protagonista, ad entrare nel suo mondo e a seguire la sua storia. Dichiarazione d'intenti di chi sta dall'altra parte a filmarla posizionandosi alla sua altezza. Al suo esordio, Eliza Hittman si colloca dalle parti dell'indie U.S.: scrive, dirige e produce una storia "piccola" e breve, a basso budget, con giovani attori esordienti. Come analizza Hamilton Santià (nel volume "America Oggi"), questo filone è divenuto, a partire dagli anni Duemila, una vera e propria "categoria produttiva" uno "stile collettivo", attraverso un sistema simbolico ricorrente e una sensibilità comune. Etichette da cui la regista da subito rende palese il desiderio di sfuggire, attraverso un approccio personale e idiosincratico verso quegli stilemi e cliché riconoscibili che a partire dai film di successo vengono ormai replicati e serializzati. Ciò che racconta non è in particolare qualcosa di programmaticamente originale o fuori dai canali mainstream: al centro delle vicende la quattordicenne Lila, che vorrebbe emulare la sua miglior amica, Chiara, già fidanzata e più esperta in vita sessuale. Volgendo le proprie attenzioni su Sammy, ragazzo più grande che "va a letto con chiunque", Sammy, cerca di inserirsi nel suo mondo, mettendosi in una situazione pericolosamente vulnerabile.
Il volto e gli sguardi della giovane protagonista (l'intensa Gina Piersanti) indirizzano tutta la narrazione di "It felt like love": scruta dalla spiaggia i corpi della sua migliore amica e del suo ragazzo che si baciano in mare. Di nascosto il suo fratello minore in intimità con una compagna: persino lui sembra più esperto di lei nelle faccende di sesso. Poi in una sala da gioco, i particolari dei corpi atletici di alcuni ragazzi, soffermandosi su quello di cui sembra essere attratta: i pettorali scolpiti, le muscolose braccia, le mani che colpiscono con forza le racchette da ping-pong. La dinamica dell'attrazione "boy meets girl" è riversata di segno: è la femmina a cercare e a guardare il maschio, fulcro di inquadrature oggettive e esplicite frammentazioni. Ma la potenziale dimensione voyeuristica non è replicata, quanto messa in scacco. La sua posizione non è di controllo o di predominazione, ma ambigua e fragile: occhi rivolti verso il basso, viso pallido quasi ectoplasmatico. La regista si sofferma sui suoi primi piani, registrandone la confusione esistenziale, l'inadeguatezza e la precarietà con cui attraversa gli spazi e si rivolge agli altri. L'enfasi naturalistica evidenzia il suo respiro, i suoni naturali e ambientali che la circondano, senza mai ricorrere ad un accompagnamento musicale extra-diegetico; l'illuminazione poco chiara che domina soprattutto gli interni rende una forte claustrofobia. Tutto converge nel trasmettere la pressione, l'asfissia provata da Lila, che non sembra trovare alcuna via d'uscita. Perfino il rapporto con l'amica Chiara non sembra essere un accogliente rifugio per Lila, ma sempre qualcosa di precario e instabile. Se accusa sempre fatica nel comunicare con le parole, sembra trovare libera espressione di sé solo nei momenti di danza con altre ragazze, in cui far esprimere il proprio corpo e lasciare momentaneamente le proprie insicurezze.
Nei suoi confronti, Hittman si approccia con un’intimità sconcertante che non scade mai nel feticismo, una partecipazione e una prossimità che non implica alcun giudizio dall'alto della sua personalità e dei suoi atti. Non indietreggia di fronte alle immagini che mettono in mostra la sua accondiscendenza verso le richieste sconce che le rivolgono i ragazzi. La seguiamo mentre viene introdotta nel loro microcosmo, volontariamente accetta di soddisfarne gli appetiti, ma senza diventarne mai succube. È lo spettatore ad essere così messo in una posizione poco confortante, costretto a decidere lui stesso come porsi nei suoi confronti, turbato da questa figura che rimane fino alla fine inafferrabile, sfuggente, poco trasparente. "Sembrava amore" quello che provava per Sammy, o forse era solo desiderio di sentirsi all'altezza di Chiara e di tutte le aspettative che gravano sulle ragazze della loro età.
Come nel successivo "Never Rarely Sometimes Always" (premiato all’ultimo Festival di Berlino), l'incipit in medias res che ci butta nel mondo della protagonista senza mediazioni né backgroud e il finale aperto sottolineano l'intenzione di non volerne delinearne il romanzo di formazione o un preciso profilo psicologico-caratteriale. Quanto raccontarne un breve scorcio della sua adolescenza dominato dall'ellissi narrativa, da lunghe sequenze che non sembrano portare a niente, dal non detto nelle conversazioni. Attraverso il rinnovato sguardo in macchina con cui si chiude il racconto, che ne richiama la prima scena e ne evidenzia la mancata evoluzione, Lila si rivolge nuovamente allo spettatore stesso, questa volta con un atteggiamento di sfida, nel chiedergli di accantonare ogni facile sentenza.
cast:
Gina Piersanti, Giovanna Salimeni, Ronen Rubinstein
regia:
Eliza Hittman
titolo originale:
It Felt Like Love
distribuzione:
Variance Films
durata:
82'
produzione:
Eliza Hittman, Shrihari Sathe, Laura Wagner
sceneggiatura:
Eliza Hittman
fotografia:
Sean Porter
montaggio:
Carlos Marques-Marcet, Scott Cummings