Parlare di un nuovo film di Woody Allen riflette sempre più i limiti del suo cinema recente, costringendo a tornare sugli stessi temi. Cambia la copertina, ma il contenuto rimane lo stesso. E non sarebbe grave, se formalmente ci fosse qualche novità, qualche inattesa impennata. L'Allen regista, però, sembra rifiutare i trucchi più evidenti dell'illusionista giocando a carte (quasi) scoperte; mostrandosi, di nuovo, abile mestierante, un po' a corto di idee. Ci induce a vedere i suoi film come a un esame oculistico: un occhio aperto su quest’opera, e l'altro sul resto della sua carriera, sui suoi bisogni di fare film per sopravvivere, di sviluppare idee e appunti rimasti nei cassetti, per farci unire puntini immaginari dei temi nella sua galassia.
Se "
Blue Jasmine" aveva mostrato una prospettiva un po' diversa, un ritratto femminile ai tempi della crisi, "Magic in the Moonlight" sa di naftalina. Di nuovo la fine degli anni venti, un'epoca ideale e idealizzata da Allen in più di un film, per tutto quello che avviene nell'arte, nella cultura, nella musica, nella scienza. Una storia d'amore nel sud della Francia, anche questa idealizzata e vista attraverso colori per lo più crepuscolari, a tinte calde. Sullo sfondo, la magia e la chiaroveggenza, la necessità di credere nell'illusione di un'arte, anche se ingannatrice - come il cinema, per sopravvivere, per sopportare le miserie della vita. Trovano spazio Nietzsche e Hobbes, la musica jazz (ovviamente), in particolare l'amato Cole Porter, e la psicanalisi. Accettare quindi che la vita sia una meccanica concatenazione di eventi sterili, oppure abbracciare l'illusione di un qualcosa di mistico, religioso, e vivere nella felice falsità del sogno. Problema ricorrente per tanti personaggi della filmografia di Allen.
Il grande illusionista Stanley Crawford è un artista disincantato che smaschera finti medium; viene assunto per scoprire i trucchi della sorprendente sensitiva Sophie. Il fascino dei lei, però, gli farà mettere in discussione le sue stesse certezze, accettare la magia e il potere dell'ignoto, abbandonando il pessimismo e assaporando per un po’ la felicità - che per Allen quindi è l'illusione (è il cinema?). E se poi lo sviluppo della vicenda sarà prevedibile, Allen ci arriva attraverso un
turning point che ridesta l'attenzione, e con un finale furbetto e ambiguo. Per quanto povere ed essenziali siano le tappe della sceneggiatura, per quanto pigra e adagiata su scelte consolidate sia la regia, alcune trovate e l’impianto generale non fanno rimpiangere il costo del biglietto. Resta addosso l'atmosfera fuori tempo, quasi da commedia teatrale scaduta, di un film all'apparenza innocuo, che però gioca, e questo lo salva, con la storia d'amore, per affrontare un tema-tarlo del regista, per nulla scontato e trattato con intelligenza. C'è anche l'espediente del mascheramento: Crawford si esibisce nei panni del cinese Wei Ling Soo, e di mestiere scopre inganni, in un corto-circuito dove gli uomini sono ingannati tra loro,
homo homini lupus, come la vita e le illusioni stesse li ingannano e li illudono a loro volta.
I personaggi sono piatti perché funzionali alla storia: Colin Firth, impettito, misantropo, razionale, disilluso, colto e sarcastico non sembra mai entrare veramente in sintonia con Emma Stone, e i due sono forse una delle coppie meno riuscite del cinema alleniano. A loro discolpa, i momenti comici e le battute latitano, oppure si accomodano, anche qui, sul
savoir-faire di dialoghi già sentiti e gag sviluppate con la mano sinistra. Ed è un peccato che il marketing abbia trovato soltanto in questi ultimi tempi la voglia e la convenienza di spingere questo Woody Allen.
La magia al chiaro di luna scatta grazie alla pioggia, altro momento che fa ricordare circostanze simili disseminate negli altri quarantacinque film di Allen. Giocare a trovare rimandi interni diventerebbe sterile, ma è affascinante notare come alcuni schemi sembrino ormai far parte di un patto implicito tra l'autore e i suoi spettatori, vecchi e nuovi. Come la futilità della religione, come rapporti di coppia sbagliati e mal assortiti, come l'amore tra una ragazza giovane e un uomo maturo destinato a guidarla, a formarla. In fin dei conti è difficile dimenticarlo o fare finta di niente: rimane la presenza ingombrante di Allen stesso, nel personaggio dell'artista incensato dal pubblico, ma pessimista, depresso e disincantato, pronto al tempo stesso a farsi affascinare e illudere dal mistero della finzione. Pronto a credere che esista una speranza nell'aridità del razionale. In particolare, ci sembra, Allen indulge a descriversi in una scena, affidando alle parole del personaggio dello psichiatra, che parla di Stanley alla propria moglie, un ritratto di se stesso: geniale, depresso, ma affascinante. Non bisognerebbe, forse, confondere la biografia dell'uomo con quella dell'artista, o avere la presunzione di poterlo fare, ma, nella scena finale, pare quasi che Allen stesso sia lì, un po' narcisista, un po' indifeso, in attesa di sentire un colpo che squarci il velo delle sue delusioni e delle sue amarezze.
04/12/2014