"Macchine mortali" si ambienta in un futuro retrodatato rispetto ai nostri tempi, per via dell’estetica applicata all’uso di scienza e tecnologia: costumi, edifici, oggetti sono correttamente ispirati a una Londra vittoriana. L'estetica steampunk si accompagna alla svolta "etica" che la nuova struttura geopolitica del mondo ha subito dopo l’evento post-atomico: Londra, città mobile sospinta da imponenti cingolati, è una trazionista intenta a inglobare gli agglomerati mobili cittadini minori e ricavarne risorse. Il mondo si è dunque frammentato e lo scacchiere europeo viene immaginato composto da variegate costruzioni senza radici.
Premessa filmica (arbitrariamente) sentenziata dalla scena d'azione in apertura in cui la spietata caccia londinese di una piccola realtà bavarese instilla un primo dubbio sull’originalità del prodotto: la rincorsa tra città mobili riproduce la formula di "Mad Max: Fury Road", stessi totali a volo d’aquila in movimento che spezzano il respiro quando atterrano nelle strade cittadine o nelle cabine di pilotaggio; l’accompagnamento musicale di Jukie XL sembra proprio un riciclo preso dalle composizioni per il film di George Miller. "Macchine mortali" incede per tutta la sua durata in questo modo, mimesi del fantasy ad alto budget degli anni dieci del secolo corrente, prima che figlio di un genere o di una estetica ben precisa. Si rivede "Terminator" in una delle nemesi dei protagonisti nella gestione e nella rappresentazione, non chiaramente nelle intenzioni che invece sollevano uno dei temi più interessanti e mal sviluppati della trama. Mentre il finale prende di peso lo "Star Wars" di Rian Johnson con quel muro di confine come ultima e pericolante difesa e l’attacco aereo in linea retta contro l’avamposto nemico armato; ma anche "La minaccia fantasma"quando una piccola nave si dirige al meccanismo cuore di Londra.
Dietro a questo rimpasto di dinamiche evidentemente poco originali che non permettono a "Macchine Mortali" di giovarsi di un colpo vincente tutto suo, c’è un lavoro ben riuscito di world building, qualora si accetti la premessa di un mondo fatto di appendici mobili terrestri, marine, volanti e sotterranee. L'estetica dell'avamposto volante sembra anch'essa rubacchiata altrove ("L’isola del tesoro" Disney) ma la cura del dettaglio restituisce una bolla fantasy-steampunk personale, credibile, rappresentazione di un mondo in rovina e segmentato, sregolato e caotico. Peccato gli ambienti non sembrino mai veramente sporchi, malati; luci e colori sgargianti non hanno alcun senso estetico se non semplificare la visione allo spettatore, col rischio del piattume anestetizzante, giocoforza dovuti all'inefficiente trama young adult che muove i personaggi. Così la regia di Christian Rivers si adegua all’andamento quasi sufficiente dell’opera, regista forte ma impersonale tra l’effetto speciale in digitale, lento e pudico negli intermezzi dialogati.
Salta all’occhio una ricerca esponenziale del digitale su schermo, debitrice in fase produttiva ai lavori sovrabbondanti di "Lo Hobbit". Rivers rispetta le premesse ma sbatte contro un problema già evidenziato dalla seconda trilogia jacksoniana: il fantastico e l’avventuroso finiscono esattamente col finire della grandeur visiva, mentre il resto del congegno (chiave di lettura, registro comunicativo, connessioni logiche, sotto-trame) si affossa in un infruttuoso marasma annacquato.
cast:
Hera Hilmar, Robert Sheenhan, Hugo Weaving, Stephen Lang, Jihae , Colin Salmon
regia:
Christian Rivers
titolo originale:
Mortal Engines
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
128'
produzione:
Media Rights Capital, Universal Pictures, WingNut Films
sceneggiatura:
Peter Jackson, Philippa Boyens, Fran Walsh
fotografia:
Simon Raby
scenografie:
Dan Hennah
montaggio:
Jonno Woodford-Robinson
costumi:
Bob Buck, Kate Hawley
musiche:
Junkie XL