Nelle interviste rilasciate il regista Derrick Borte raccomanda di non aspettarsi che "London Town" sia un'opera biografica sui Clash né un dramma sociopolitico sull'Inghilterra anni Settanta, quanto piuttosto un coming of age che ai Clash e alla situazione sociopolitica dell'Inghilterra anni Settanta si appoggia per raccontare la vita di Shay (Guevara, viene scherzosamente chiamato un paio di volte in un gioco di pronunce non così efficace in italiano), quattordicenne di Wanstead, sobborgo nord-orientale londinese. Deluso dal provincialismo locale, studente quasi modello, deve occuparsi del padre (costretto al doppio lavoro, diurno in un negozio di pianoforti, notturno di tassista), della sorellina, dei bulli, dei debiti e della casa, sacrificando ad ansie premature l'unica versione di se stesso di cui dispone al momento e che comunque non gli piace, capace com'è di esaltarsi solo davanti ai biglietti per la partita del Chelsea. Ma è il 1978, il punk infuria, Margaret Thatcher è a un passo da Downing Street e la madre di Shay, spirito libero esule volontario dalla famiglia e squatter latitante in quel di Londra, gli spedisce una musicassetta con su incisa "Clash City Rockers": è epifania.
"London Town" è pedissequamente fedele a un determinato tipo di racconto (musicale) di formazione disimpegnato, più "Almost Famous" che "This Is England", e registra in primis il cambio di prospettiva del protagonista, da una piccola realtà a una grande realtà: da Wanstead a Londra, da un nucleo famigliare convenzionale castrante al fenomeno delle case occupate, con tutte le annesse e connesse disinvolture affettive libertarie; quelle da cui Shay è prima incuriosito e affascinato, in quanto certificato di indipendenza dal sistema bigotto e schiavista e dal giogo dei ricchi, ma che poi non riesce a sopportare se incarnate dalla madre che si intrattiene con diversi fidanzati e dedica più amore alla fallimentare carriera canora che ai figli.
Sono molte le circostanze che spingono Shay verso la City: il ricovero ospedaliero del padre, schiacciato da un pianoforte durante un trasporto per le scale, Vivian, ragazzina altolocata mascherata da punk incontrata sul treno, una febbre improvvisa della sorellina, il bisogno di fare i conti con una figura materna troppo a lungo idealizzata, il fermento del movimento punk; e ognuna di esse rappresenta una tappa nell'itinerario educativo del ragazzo. Responsabilità economiche, scoperta del sesso, disincanto, consapevolezza politica: Shay è un futuro working class hero già dotato della lucidità per contraddire il punk rock hero Joe Strummer affermando, durante una nottata trascorsa casualmente in cella fianco a fianco, che con i bei discorsi su anarchia e rivolta non si pagano le bollette.
Frasi del genere, frequenti e pregne di affettata saggezza popolare, sono fra le bassezze di un film purtroppo preconfezionato in ogni aspetto, dal design dei personaggi alla cronaca epocale. É giusta la raccomandazione preventiva di Borte ma l'insistito tono da commedia leggera stilizza, ridicolizza o affibbia etichette dove invece servirebbe una visione di insieme d'altro respiro la cui assenza non è motivata dal fatto che il punto di vista sulla storia sia quello tendenzialmente categorico di un quattordicenne. Perciò quando alla fine lo Strummer di Jonathan Rhys Meyers (che fu un perfetto pseudo-Bowie in "Velvet Goldmine" e qui invece non va oltre la caricatura) si fa largo tra la folla, davanti al negozio di pianoforti trasformato in rock shop, imbraccia la chitarra e intona "I Fought the Law" salvando una situazione disperata, il suo incedere è quello di un'apparizione angelica circonfusa di un divismo osato neanche dal Jim Morrison di Stone; e dirla una scena esemplificativa fuori luogo è dire poco.
I volti della Londra punk ci sono, però relegati a margine, posticci, incolori, piazzati a guisa di feticcio e nozione: i tafferugli fra i redskins e i naziskins del National Front, le risse con i bobby fuori dai concerti, le divergenze fra nichilismo e rivoluzione (dunque fra Sex Pistols e Clash), le comunità nere giamaicane, l'Iron Lady onnipresente sugli schermi televisivi; tappezzeria bidimensionale che perde punti nella differenza tra il tirarsi indietro per lasciare sotto i riflettori la vicenda principale e la cattiva progettazione a monte, cosa che penalizza la credibilità del contesto, vicinissimo alla carnevalata, e di conseguenza la veracità e la riuscita empatica della parabola formativa di Shay, fotocopia sbiadita di mille altre.
Certo resta e resiste la musica dei Clash e delle altre band storiche che risuonano per tutto il film e che il piede sul pavimento lo fanno battere. Un po' poco data la superficialità complessiva, che non è candore né orientamento al pubblico minorenne bensì vero difetto, e al limite strappa sorrisi di cortesia, come in qualsiasi commediola dove un'ignara bambina di sei anni proferisce parolacce interrogando gli adulti sul loro significato.
cast:
Daniel Huttlestone, Nell Williams, Jonathan Rhys Meyers, Dougray Scott, Natascha McElhone
regia:
Derrick Borte
durata:
92'
produzione:
Tom Butterfield, Sofia Sondervan, Christine Vachon
sceneggiatura:
Matt Brown
fotografia:
Hubert Taczanowski
scenografie:
Laura Ellis Cricks
montaggio:
Brian Ufberg
costumi:
Angela Billows
musiche:
Bryan Senti