Forse nel corso della seconda metà del Novecento la definizione di artista ha perso la sua valenza più nobile. Oggi si fa presto a dire artista, ci si autodefinisce tale tanto da disperdere ogni grado di qualità. Eppure da quando arte è arte, l'occhio dell'artista è spesso nascosto ai margini della ribalta. Non tutti emergono, ma da piccoli particolari è possibile scorgere quel tocco che rende diverso un uomo. Isaac, il fotografo ebreo sefardita protagonista di "Lo strano caso di Angelica" sa vedere. Non pretende di capire il mondo né di impartire al prossimo ciò che acquisisce, se non con le suo fotografie, ma riesce a vedere la bellezza e l'unicità delle/nelle piccole cose, in oggetti altrimenti trascurabili, vedere l'atipicità nella piatta banalità quotidiana. Entra in una casa e si sofferma sul soffitto o su un dipinto trascurato dai più, fissa un fiore che fa da cornice a ritrite chiacchiere d'andazzo. Viene richiamato dall'antica arte contadina per immortalare una attività (dunque un' epoca) ignorata dal caos delle grandi e piccole città. L'occhio di Isaac è l'occhio di un'artista, dell'artista, di un fotografo ma anche di un regista. E', dunque, l'occhio di Manoel de Oliveira, che sceglie ancora una volta il nipote Ricardo Trêpa per interpretare un suo film, stavolta vero alter-ego del maestro portoghese.
de Oliveira ha rispolverato una sua sceneggiatura scritta nel 1952 per ambientarla, pur con qualche volontario anacronismo, ai nostri giorni. Ma, a ben vedere, se si escludono pochi dettagli e alcuni riferimenti alla crisi economica contemporanea (nella vecchia sceneggiatura Isaac era un israelita rifugiato in Portogallo per sfuggire alle persecuzioni naziste durante la seconda guerra mondiale), la sua è una riflessione pienamente atemporale. Tra i suoi film più surreali - se volete chiamare ancora una volta in causa
Luis Buñuel potete accomodarvi - anche se non sposta il suo stile nemmeno di una virgola: lunghe inquadrature fisse, spesso per catturare il paesaggio - e pochi oggi sanno filmare panorami ed elementi primordiali come fa de Oliveira - con musica d'accompagnamento in sottofondo (di Chopin) che rispetto ad altri suoi film recenti distende il ritmo piuttosto che comprimerlo, recitazione semi-astratta, temi alti, quando non filosofici, che viaggiano sul filo della leggerezza, dialoghi colti ma non boriosi.
Il mestiere di fotografo (ma, vedi sopra, è sempre bene accostare il percorso di Isaac a quello di un regista) nobilita lo spirito dell'artista, ma bisogna tener conto anche dei rischi che alcuni percorsi comportano. Ed è qui che la presunta vena realista del film sfocia nell'inventiva, lo studio dell'artista confluisce in ambiti surreali e prettamente filmici. Come in un giallo dove il cittadino scopre un particolare rischioso tanto da dover combattere contro cattivi e ombre (comprese quelle di sé) o, ancora meglio, come un ripasso aereo di "Blow-Up" di Michelangelo Antonioni o
"La conversazione" di Francis Ford Coppola. Il percorso al contempo più divertito e più tragico del film (dunque più rischioso) risiede in questo status di sospensione tra realtà e fantasia, materiale e immateriale, visione personale e visione collettiva dove a predominare nel concreto è sempre la seconda.
All'artista, l'inventivo, il diverso, nonché straniero, guardato con diffidenza da chi gli gira intorno, non irriso ma solitario lasciato sostanzialmente solo, resta la bellezza più alta. Splendore che risiede nella luminosità del volto di Angelica, nell'irradiarsi del suo sorriso, nell'immortalità del suo spirito che aleggia in sogno e in realtà su mari e monti di una città notturna. Mortale/immortale come molti dei personaggi deoliveriani che entrano/escono dalla vita, si fanno beffa della normalità, viaggiano ad alta quota paladini dell'arte e, per erigere manifesti in nome della cultura, sono disposti a combattere fino alla morte.
10/12/2011