Eddie: So I got talent? So what beat me?
Gordon: Character.
Walter Tevis, Eddie Felson, Robert Rossen. Lo scrittore, il regista e, in mezzo, il giocatore di biliardo. Tre perdenti di successo, incatenati a un talento che genera, al pari di una febbre tropicale, ebbrezza e malattia, in un’America troppo grande e meschina per potersene curare.
Tevis è lo scrittore. Californiano, classe 1928, trova rifugio nella letteratura dopo che una malattia giovanile l’ha costretto a una lunga degenza in ospedale, minandone il fisico. Oltre alle librerie, frequenta le sale da biliardo e, tra i fumi delle sigarette, quelli del whisky e delle lampade che illuminano, violente, i tappetini verdi e le facce spavalde di chi gioca e scommette, cattura una storia di cadute e di risalite, di dollari persi e riguadagnati nel corso della stessa notte, e di un sordido amore. Sarà il suo esordio letterario: "The Hustler", pubblicato nel 1959, dove appare per la prima volta Eddie Felson.
Fast Eddie, "lo svelto", è il giocatore. Un antieroe accompagnato da un socio, Charlie, che lo finanzia e gli fa anche da padre. Eddie è armato di un sorriso smagliante e della sua stecca di biliardo, gelosamente custodita in un astuccio di pelle. Il titolo italiano rende eloquentemente il suo carattere: "Lo spaccone". Invece, cos’è un hustler? Un giocatore professionista, un imbroglione, un baro: a pool shark, uno squalo del biliardo, come vengono chiamati non senza disprezzo. Eddie è un po’ tutte queste cose insieme e poi, certo, anche un adorabile sbruffone. Bazzica le salette di provincia e individua i polli da spennare, nascondendo il proprio gioco; sbaglia i colpi di proposito, perdendo piccole puntate all’inizio, così l’avversario si fida e cade nella rete, insomma, mette in scena tutti i trucchi del perfetto hustler. Eppure, Fast Eddie è consapevole di essere anche uno straordinario giocatore: stufo di truffare i dilettanti, punterà a farsi un nome a Chicago, per salire nell’Olimpo dei veri professionisti, un club ristretto, di difficile accesso, sulla cui vetta, come un pachidermico Giove con gli anelli d’oro alle dita, siede Minnesota Fats, il miglior giocatore di centoventicinque d’America. Sarà la vita a insegnare a Eddie, a schiaffoni, come entrarci. Bert Gordon, un gambler, lo finanzierà, cercando di spremerne il talento per il proprio tornaconto personale: a lui interessa il tappeto verde solo perché ha lo stesso colore dei dollari ("The Colour of Money", infatti, sarà il seguito scritto anni dopo da Tevis e riproposto al cinema da Martin Scorsese). C’è anche Sarah, che a Chicago diventa la ragazza di Eddie: una donna ferita, malmessa, causa la poliomielite che l’ha azzoppata da bambina e il vizio di bere, che le impedisce di dedicarsi allo studio e alla scrittura. Una donna in cui Tevis, che inciampa nell’alcolismo dopo il suo secondo romanzo e smette di scrivere per vent’anni, ha infilato la sua anima più malinconica.
Rossen è il regista. Newyorkese, arriva a dirigere "The Hustler" a fine carriera (sarà il suo penultimo film). Ha già alle spalle una lunga presenza a Hollywood, un percorso, però, molto accidentato. Firma negli anni Quaranta il successo "Anima e corpo", un noir ambientato nel mondo del pugilato (sport in cui si era cimentato da giovane) e soprattutto la sua opera più politica, “Tutti gli uomini del re”, dove tratteggia l’ascesa di un idealista del Sud degli Stati Uniti, un’anima buona ma ingenua, attento alla causa dei meno abbienti, che il potere riesce a trasformare in un avido e corrotto governatore, populista e autoritario. Il plauso della critica non impedisce a Rossen di finire sotto la scure del Maccartismo, negli anni Cinquanta, a causa della sua adesione al Partito comunista americano, con la conseguente estromissione da Hollywood. Il regista tornerà alla sua professione solo dopo aver testimoniato contro amici e colleghi, a cui stroncherà, suo malgrado, la carriera: un episodio lacerante, che provoca una scissione tra uomo e artista, tra l’ideologia e la semplice voglia di tornare a fare il proprio lavoro.
Nell’adattare il romanzo di Tevis insieme allo sceneggiatore Sidney Carroll, Rossen si affida alla prospettiva neorealista, dalla quale proviene, poiché, com’era accaduto con la boxe di "Anima e corpo", conosce il mondo delle sale da biliardo; pure, a questa affianca una raffinata abilità nel trattare le ombre dell’animo umano. Il cast è di prim’ordine: Paul Newman nel ruolo principale; Jackie Gleason in quello del campione Minnesota Fats; Piper Laurie (che anni dopo sarà la tremenda madre di "Carrie" di Brian De Palma) interpreta Sarah; e George C. Scott darà il volto a Bert Gordon, regalando, come spesso gli capiterà (ad esempio nel kubrickiano "Dottor Stranamore"), una performance straordinaria.
Il controllo della produzione permetterà a Rossen di immettere nel testo filmico i temi a lui cari: quello della sopraffazione e della sconfitta, della perdita, della disabilità, rappresentata plasticamente da Sarah; una disabilità che diventa in altri, come in Bert ma anche in Eddie, incapacità di amare, a curarsi del destino del prossimo. Tuttavia, è facile riscontrare in questa storia di perdizione anche la vicenda che ha toccato il regista, la persecuzione politica, il divieto di girare, l’obbligo alla confessione e al “tradimento” pur di tornare sul set. Sono tutte ferite che aleggiano in mezzo ai tavoli del biliardo, dentro gli squallidi hotel, nell’appartamento di Sarah, dove si muovono i protagonisti della vicenda.
Il formato in Cinemascope, utilizzato da Rossen, viene imprigionato dalla claustrofobia degli interni: tavoli, stanze, separé, che funzionano come cerniere dell’animo, opprimenti cornici che strozzano le ali e impediscono ai corpi dei protagonisti di liberarsi se non, appunto, dentro gli spazi nei quali sono costretti. Fast Eddie è chiuso dentro le salette tanto quanto Sarah è imprigionata tra i bar e il suo appartamento, spesso ubriaca; così come Bert, che bazzica gli ambienti che contano, possiede un’automobile sportiva, ha famiglia e una casa, ma la sua anima è malsana quanto gli scantinati dove gioca a poker, dai quali proviene e ai quali dovrà inesorabilmente tornare. Il bianco e nero di Eugene Schüfftan, celebre direttore della fotografia tedesco, che ha firmato capolavori come "Metropolis" di Fritz Lang, è perfetto per mettere in scena le luci e le ombre dei caratteri dei protagonisti, che si riflettono sui tavoli da gioco e negli interni. Il suo lavoro sarà premiato con l’Oscar; una scena, in particolare, riprende anche le vertiginose architetture e i giochi in chiaroscuro del cinema espressionista: Sarah, ubriaca alla festa di Findley, facoltoso giocatore che vuole sfidare Eddie, percorre le scale e la sua andatura traballante, insieme alla musica che incalza, è un’anticipazione straniante e la perfetta sintesi della sua anima perduta, nonché della tragica fine che attende la ragazza alla fine della notte.
Altrettanto riuscita è la sceneggiatura di Rossen e Carroll, che calibrano sapientemente le scene delle partite più importanti: la prima sfida, lunghissima, estenuante, tra Fast Eddie, che perde, e Minnesota Fats; l’ultima, più breve, dove Eddie risulta infine vincitore sul campione di Chicago; in mezzo, la partita con Findley, che funzionerà da spartiacque per la vita e il destino dei protagonisti. Ciononostante, proprio come accadeva nel romanzo di Tevis, la sorte dei personaggi non resta mai appiattita sui tavoli da biliardo, dentro i colpi, lungo le stecche e le palle in buca, che ci vengono tuttavia mostrati con efficacia di montaggio e perizia registica, tanto che anche lo spettatore neofita si sentirà parte del gioco quanto Eddie, Minnesota Fats e chi scommette intorno a loro, nell’atmosfera incalzante, vivida, che si respira nelle sale; una maestria che renderà il gioco del biliardo di nuovo popolare in America a seguito del successo del film. Oltre a questo, ciò che interessa a Rossen è mettere in mostra l’umanità degli sfidanti, o la loro mancanza di umanità; per cui, ogni partita si risolve in una sfida tra uomini, e la vittoria nei confronti dell’avversario è inevitabilmente legata alla sopraffazione. È così nel biliardo, ma è così, soprattutto, nella vita: i dialoghi, gli incontri, persino le notti d’amore di questo film non sono altro che una riproposizione, in interni diversi, nella luce e nelle ombre di chi li abita, di una lotta per la sopravvivenza. Lo dirà chiaramente Sarah a Eddie, durante una delle fasi del loro tormentato rapporto, accusando l’uomo di utilizzare con lei gli stessi, patetici trucchi da squalo del biliardo.
Rossen si prende, in uno dei nodi cruciali, la libertà di stravolgere il finale del romanzo, per permettere alla sfida imperitura tra vincitori e vinti di portarsi a nitore in tutta la sua forza. Nel libro di Tevis, il rapporto tra Eddie e Sarah e quello tra Eddie e Bert viaggia sempre su due binari paralleli, e per tutta la vicenda Bert non incontrerà mai la donna. Non serve, perché è Eddie ad applicare anche nella sua relazione con Sarah il cattivo apprendistato subito da Bert, impedendo che la loro storia d’amore si dispieghi nella sua potente carica emotiva, ma resti solo un abbozzo, talvolta tenero, molto spesso uno squallido diversivo per trascorrere la notte in compagnia. Rossen ritaglia più spazio al personaggio di Sarah e questa scelta fa brillare l’incandescente materiale narrativo, lasciando che vada a fuoco e deflagri compiutamente, travolgendo i protagonisti e lo spettatore. Quando Bert propone a Eddie di andare nel Kentucky, dove lo attende la sfida col ricco Findley, "lo spaccone" decide di portare con sé anche la ragazza. Il gioco dei rapporti umani tra i protagonisti si trasforma così in un pericolosissimo triangolo di amore e odio. Bert, difatti, individua in Sarah un avversario da abbattere, poiché potenzialmente pericolosa per il fine che si propone, cioè gestire Eddie a proprio piacimento. Il suicidio di Sarah, causato indirettamente da Bert ma del quale Eddie non è esente da colpe, anzi, di cui si sente maggiormente responsabile, è un’invenzione della sceneggiatura, cinematograficamente perfetta; un climax drammatico che punisce il protagonista, travolgendo i suoi sogni, per scaraventarlo nella crudissima realtà della vita. C’è una sorta di determinismo, è vero, nel cinema di Rossen: saranno i più forti, o i meno deboli, ad andare avanti; ma dovranno essere consapevoli, almeno, della terra bruciata che si sono lasciati alle spalle; della sconfitta di chi hanno deliberatamente lasciato indietro e desiderato annientare; dovranno prendersi l’agognata vittoria, e la vita che ne è costata, insieme al conto da pagare e al fardello insostenibile che ne consegue, da trascinare, per sempre, con sé.
cast:
Jackie Gleason, George C. Scott, Piper Laurie, Paul Newman
regia:
Robert Rossen
titolo originale:
The Hustler
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
134'
produzione:
Robert Rossen
sceneggiatura:
Robert Rossen, Sidney Carroll
fotografia:
Eugen Schüfftan
scenografie:
Harry Horner
montaggio:
Dede Allen
musiche:
Kenyon Hopkins