Prima di Eva, c’era Lilith. Demone della mitologia mesopotamica, prima moglie di Adamo nell’ebraismo, nacque al suo fianco, nello stesso momento. Il primo libro della Genesi riporta ”Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di dio lo creò, maschio e femmina li creò“, ma senza un diretto riferimento all’identità di lei. Il regista Bruno Safadi, brasiliano, immagina la prima donna, interpretata da Isabél Zuaa, come una poetessa dalla pelle di ebano, capace di interpretare il senso del creato e di goderne, di trasformare il mistero della vita in una festa.
L’eden di Safadi è un luogo incerto, sicuramente in divenire: le immagini si sovrappongono, cosicché, per esempio, le nuvole, spinte dal vento, diventano onde marine in senso contrario. La fotografia è di Lucas Barbi. Il paesaggio vira rapido dalla notte al giorno, dall’ombra alla luce, dal seppia al blu. Dio qui lavora per approssimazione, mescolando una bozza di mondo all’altra, come un’artista dilettante che mette a confronto i suoi schizzi. Gli animali sporadici – una capra, un pappagallo, un serpente – sono comparse di questa scenografia primordiale. Come in ”The Tree of Life“ di Terrence Malick, il disegno del creatore può essere scrutato, non afferrato. Sagome e colori, sequenze di vita embrionale al microscopio, osservate, invece, dentro la coscienza dei personaggi, come pulsazioni interne alla mente, si agitano sullo schermo; la biologia delle cose è, ancor prima di un fatto scientifico, un’intuizione, una fantasmagoria nascosta sotto il velo della natura.
Come in ”The Tree of Life“, ancora, le voci dei protagonisti circolano nell’aere e si rivolgono, talvolta con rammarico, al proprio dio. La voce di Lilith abita le montagne, le pianure e le spiagge ma, con la fierezza di una sciamana e l’incanto di una bambina, anziché porre domande, legge il mondo fin qui manifesto attraverso una personale esegesi; il testo, antiprosaico, scorre cullato dalla sinuosità del portoghese, poi diluito nelle immagini di questo paesaggio in rapido mutare; il tono è febbricitante. La femmina si rivolge al cielo; Adamo sta alle sue spalle, in secondo piano, silenzioso, in ascolto di questa creatura passionale.
Il primo amplesso tra i due, il primo amplesso del mondo, inizia con il godimento di lei, unica figura nell’inquadratura, per bocca di Adamo. Questo incontro ha ritmi fatali, ritualistici e, per quanto, in seguito, Lilith poggi carponi e l’uomo la prenda da dietro, sembra la venerazione di un sacerdote alla propria dea. Le acque del mare mutano in rosso, la donna ha sanguinato ma non ne ha paura; il piacere continua, con il solo busto di lei, incorniciato nella notte, a riempire l’immagine.
”Non sono la tua compagna“ dice, placida. Lilith ha una spiccata forza morale, primordiale come il paesaggio tutto intorno, e l’amante ne è intimorito. È insicuro, questo primo uomo interpretato da Renato Góes, e quando piange sembra l’Adamo di Masaccio nella cappella Brancacci, a Santa Maria del Carmine, Firenze, in preda alla vergogna di un bambino. In solitudine invoca dio, rivolgendosi a un bagliore indistinto, con un tono predelirante. Al suo creatore non chiede altro che un significato, uno scopo, perché l’interpretazione del mondo da parte di Lilith, cioè l’interpretazione femminile del mondo, è per lui spaventosa.
Il creatore risponde, a suo modo, arrecando una fitta nel costato dell’uomo. Una costola insanguinata giace sul terreno, in primo piano; appare una donna dalla pelle meno scura, entra in scena come un nuovo personaggio, sul palco della radura, e corre a curare la ferita di lui. Adamo geme di dolore. Eva, Nash Laila, prende ad accudirlo, a nutrirlo; possiede la tenerezza di cui il maschio ha bisogno. Le due donne sono molto diverse: se Lilith, in cima a una rupe e al cospetto della tempesta, svolgeva una danza primitiva e raffinata, Eva adesso cammina avanti e indietro, bisbigliando, spiegando a sé stessa il senso di tutto ma apparendo insicura e contraddittoria. I tre personaggi paiono parlare con sé stessi e non tra di loro, come se conoscessero ciascuno una lingua diversa. La colonna sonora di Edson Secco, compositore e sound designer, è simile a un ululato, ma delicato, come il rumore primigenio di un vuoto che si riempie, sul quale si adagiano i suoni di foresta e cascata. È un’immersione, come l’esperienza sonora che accompagnava la mostra ”Amazzonia“ di Sebastião Salgado, altro brasiliano, al Maxxi di Roma l’anno scorso.
L’intreccio lascia credere che Eva, al suo apparire, sia subentrata a Lilith, ma tra le due donne, tra le due femminilità, è possibile un incontro, forse un patto, ancora una volta sotto lo sguardo basito di Adamo. Poi una prolessi improvvisa anticipa la sorte della prima moglie, la sua sorte nell’immaginario storico. Una presunta strega brucia al rogo, un’altra donna viene scacciata dagli uomini. L’associazione, astuta e poco sviluppata, termina subito. Lilith nei secoli diverrà strega, diavolo, o forse semplice rivoluzionaria, ma il regista non approfondisce.
Bruno Safadi, alla proiezione del suo ottavo lungometraggio al Cinema Massimo di Torino, è curioso di ascoltare le impressioni del pubblico, come un regista al suo esordio. Il film è ricco di suggestioni. La dimensione narrativa è sacrificata, forse a ragione, nei confronti di un impianto figurativo intrigante. La quantità di sequenze, dense, potrebbe essere inferiore perché, dopo i due terzi del film, qualcosa si ripete e l’impatto visivo perde di forza: gli ottanta minuti sembrano più lunghi di quanto non siano. Un po’ di prosa avrebbe scandito meglio le immagini e liberato maggiore volume nei personaggi. ”Lilith“ ha qualche tratto del film in bozza, un’espressività spontanea e l’energia selvaggia della prima scenografia del mondo.
cast:
Isabél Zuaa, Renato Góes, Nash Laila
regia:
Bruno Safadi
titolo originale:
Lilith
durata:
80'
produzione:
TB Produções, Globo Filmes, Carlos Diegues
sceneggiatura:
Bruno Safadi, Vera Egito, Fabio Andrade
fotografia:
Lucas Barbi
scenografie:
Isabela Azevedo
montaggio:
Karen Akerman
costumi:
Daniela Aparecida Gavaldão
musiche:
Edson Secco