Gli anni Duemila hanno battezzato e aperto la strada a una falange di cineasti belgi capaci di suscitare nuove attenzioni, dopo registi tendenzialmente consacrati come Agnès Varda, Chantal Akerman o i fratelli Dardenne. Una piccola schiera autoriale capitanata da Du Welz, e poi Lafosse, Van Groeningen, Brosens (in coppia con Jessica Woodworth), Roskam eccetera, gente che oltre a mietere consenso e interesse presso festival mondiali di vario taglio, porta avanti concezioni e metodi cinematografici affatto scontati. Ultimo acquisto è Robin Pront, che esordisce ventinovenne nel 2015 con "Le Ardenne", dramma famigliare con un occhio fisso sugli archetipi della tragedia e l'altro rivolto alle stelle polari neo-noir. La vicenda si articola sul convenzionale triangolo amoroso, con la stessa variabile utilizzata da Susanne Bier resa remake da "Brothers": a contendersi la donna fatale sono due fratelli. Dove in Bier e poi in Sheridan ulteriore problematica erano guerra in terra straniera e disturbo post-traumatico di uno dei vertici del triangolo, in "Le Ardenne" è il crimine a reclamare spazio.
Nel sommario iniziale in tre minuti scarsi è racchiuso l'antefatto narrativo, preavviso di ruoli, tropi e temperatura del film. Poche immagini bastano a mostrare che Kenny e Dave sono fratelli, che si sono cacciati in una rapina finita male, che Sylvie, fidanzata di Kenny, è loro complice e che Kenny si addossa la colpa ed è l'unico a finire in galera. Salto di quattro anni. Kenny esce di galera; Dave e Sylvie devono trovare il modo di dirgli che adesso stanno insieme, lei è perfino incinta. Su questo conflitto si costituisce la tensione di "Le Ardenne" nel primo atto, dove la sensazione di ingabbiamento duplice spartita fra Dave, che non sa come evadere dall'impasse di un segreto pesantissimo, e Kenny, che fuori dal carcere boccheggia in cerca di abitudini e affetti irrecuperabili, si consolida per mezzo di una macchina da presa che si muove poco, quasi impercettibilmente e quasi solo in interni, con derivata fotografia obbligata alla cianosi. Kenny e Dave sono di rado ripresi separatamente e montati in controcampo; sono invece sempre insieme nell'inquadratura, un'unica entità confinata in una dimensione di clausura data nei limiti del visibile e basta, in assenza di raccordi di sguardo e movimento. Le reticenze dei due personaggi, impegnati in uno scambio di dissimulazioni e sospetti e a reprimere le rispettive turbolenze caratteriali, rincorrono e rincarano le reticenze narrative, in maggioranza pertinenti al tratteggio psicologico-analitico. Per dirne una: nell'ascendenza di Kenny e Dave esiste una madre e non un padre. È Dave, a seguito dell'investitura della madre, a sostituire la figura paterna per Kenny, almeno in teoria. Paternità, nascita, rinascita sono un continuum del film: figurazione acquatica all'inizio, ematica alla fine.
Fra diegesi ed extradiegesi martella distorta una cassa gabber, sbarazzandosi di inutili enfasi a commento. Il sangue e i legami da esso veicolati si addensano nel secondo, conclusivo atto. L'area boschiva collinare delle Ardenne rimpiazza gli ambienti interni senza perciò concedere respiro né luce. Kenny e Dave ci andavano in vacanza da bambini e ne conservavano ricordi felici, mentre ora hanno il cadavere di uno spasimante di Sylvie nel bagagliaio, ucciso da Kenny per gelosia, cosicché il loro addentrarsi in un mondo (in un tempo) vissuto e poi perduto ha tutta l'aria di una catabasi, tallonata dalla mdp fra conifere, neve, torbiere, discariche.
È la precognizione di una resa dei conti imminente, inevitabile quanto è inevitabile che risalendo alle origini del rapporto parentale, custodito in un luogo elettivo dell'infanzia, cadano i veli del non-detto e del non-fatto, si sciolgano inibizioni, aggressività fratricide bibliche siano pronte a esplodere dopo anni di accumulazione. Fa il suo ingresso in campo un deviato vicario paterno a cui il vero padre-mancato Dave si ribella e a cui il finto-figlio Kenny si sottomette; intanto, il ricorso occasionale alla camera a mano frantuma gli equilibri e dà l'impressione che l'intensità della contrapposizione tra fratelli sia ormai incontrollata, e un branco di struzzi fuggiti da un allevamento lo conferma. Battersi per la propria vita significa battersi per tramandarla? Nell'universo buio e freddo di "Le Ardenne", la speranza non ha posto, eccetto che una morte annunciata non coincida con un nuovo natale.
Robin Pront sembra avere chiara la rotta su cui dirigere la propria opera, anche in prospettiva futura. "Le Ardenne" stringe i nodi di ogni relazione famigliare e si fa domande riguardo a vincoli, debiti e ambiguità dell'espressione emotiva riportandole a un criterio in sottraendo dell'enunciazione cinematografica. Non è peccato che i personaggi siano evidentemente legnosi, inamovibili, tipizzati (non per niente indossano lungo tutto il film gli stessi vestiti), e pazienza se estetica e metafore sanno di scuola. Nel situarsi fra calcolo e padronanza, questo esordio cammina dritto e saldo, e dimostra meno acerbità di quanti siano i margini di crescita del suo regista.
cast:
Kevin Janssens, Jeroen Perceval, Veerle Baetens, Jan Bijvoet, Viviane de Muynck
regia:
Robin Pront
titolo originale:
D'Ardennen
distribuzione:
Satine Film
durata:
96'
produzione:
Bart Van Langendonck
sceneggiatura:
Jeroen Perceval, Robin Pront
fotografia:
Robrecht Heyvaert
scenografie:
Geer Paredis
montaggio:
Alain Dessauvage
costumi:
Catherine Van Bree
musiche:
Hendrik Willemyns