Nubi oscure si addensano sull’umanità.
Quasi nessuno le nota.
Chūya Nakahara
Nell'ultima fase della carriera Nobuhiko Obayashi si è dedicato a film molto più personali, riuniti nella cosiddetta war trilogy composta da "Casting Blossoms to the Sky" (2012), "Seven Weeks" (2014) e "Hanagatami" (2017), attraversati da un potente afflato anti-militarista. L'ultimo tassello del trittico è stato completato dopo che al regista era stato diagnosticato un cancro ai polmoni con un’aspettativa di vita di qualche mese. Incredibilmente, però, il regista giapponese riuscirà non solo a firmare "Hanagatami" (un progetto coltivato per decenni), ma a concepire e realizzare un ultimo lungometraggio. "Labyrinth of Cinema" è stato presentato al Tokyo Film Festival nel novembre del 2019, poi in Europa durante il 49esimo International Film Festival Rotterdam - un paio mesi prima della scomparsa del regista avvenuta il 10 aprile 2020 – e lo si è potuto vedere anche grazie alla particolare edizione on-line del 22esimo Far East Film Festival.
"Hanagatami" era da più parti stato definito come un'opera testamentaria, di conseguenza "Labyrinth of Cinema" lo è in modo ancor più ineludibile, rappresentando la summa intellettuale ed estetica dell'arte di Obayashi, che non nasconde l'ambizione – rara ai giorni nostri – di forgiare un'opera-mondo che funga da pedagogia del cinema. Infatti, quando all'inizio del film i cartelli dei titoli di testa vengono letti (come se ci fosse un benshi) il titolo "Labyrinth of Cinema" è accompagnato dalla didascalia "un film per esplorare la letteratura del cinema". Ecco, quindi, che la storia della Settima arte intesa in senso supremamente godardiano racchiude la Storia giapponese, ed esse sono legate in maniera indissolubile influenzandosi a vicenda. La poesia di Nakahara Chūya – già presente all'inizio di "Sada" (Obayashi, 1998) – diviene una sorta di guida spirituale e sentimentale nei diversi scenari attraversati dai personaggi.
L'ambientazione iniziale è quella di Onomichi, città portuale della prefettura di Hiroshima, che ha dato i natali al regista e cara al cinema giapponese, essendo il luogo in cui si conclude "Viaggio a Tokyo" di Yasujirō Ozu e dove lo stesso Obayashi ha ambientato diversi suoi film, in particolare alcuni successi del filone giovanile negli anni Ottanta come il trittico "I Are You, You Am Me" (1982), "The Girl Who Leapt Through Time" (1983) e "Lonely Heart" (1985). Lo spettatore segue inizialmente Fanta G, che ritorna a Onomichi dopo una pellegrinazione nello spazio profondo (ed è solo il primo riferimento al cinema come macchina del tempo), per partecipare all'ultimo spettacolo di una storica sala cittadina prima della definitiva chiusura. A causa di un improvviso temporale il locale si affolla, ma i protagonisti sono sostanzialmente i giovani spettatori e, in particolare, Mario Baba, un cinefilo che vuole fare il regista (quasi omofono del nostro Bava), Hosoda, uno storico e critico cinematografico in erba, Shigeru, il figlio di un monaco che vorrebbe entrare nella yakuza, e Noriko, un adolescente che vede nel cinema un mezzo per scoprire il mondo. Dopo un numero di apertura in omaggio ai musical hollywoodiani, la proiezione inizia e questi ragazzi si ritrovano traslati dentro la pellicola, secondo un meccanismo di proiezione e assimilazione esercitato dal grande schermo parimenti indagato sia dal mezzo stesso (si pensi a "La palla n. 13" di Buster Keaton o a "La rosa purpurea del Cairo" di Woody Allen), sia dalla teoria del cinema. La proiezione non si svolge secondo la linearità di un lungometraggio ma è un onnicomprensivo atlante le cui coordinate logiche e cronologiche sono spiazzate da transizioni improvvise e scarti spazio-temporali – per certi versi tale procedimento può rammentare "Millennium Actress" (Kon, 2001) in cui i due operatori televisivi venivano sbalzati dentro i ricordi e le sequenze provenienti dalla filmografia della protagonista.
I segmenti del film-nel-film intrecciano diversi episodi della storia giapponese dagli anni 60 dell'800 al 1945. La crisi dello Shisengumi, il corpo speciale di samurai istituito a protezione dello shogunato prima del collasso della dinastia Tokugawa, fornisce il pretesto per il primo bagno di sangue a cui si assiste, introducendo un concetto che innerva l'opera: l'incapacità degli uomini di riconoscersi come uguali è il nodo irrisolto lungo il quale si sono sviluppati conflitti nella storia di tutte le civiltà.
Di volta in volta i giovani sono samurai, soldati o semplici passeggeri di un treno che dovranno decidere cosa fare, talora conoscendo cosa succederà nella Storia, altrimenti scoprendolo insieme agli altri personaggi; ogni volta, Noriko si trasforma in una fanciulla da salvare, simbolo di quella giovinezza spezzata e sacrificata sull'altare della guerra. In questo modo, "Labyrinth of Cinema" s'interroga implicitamente sulla pervasiva capacità della Settima arte di plasmare l'immaginario e quanto i film bellici giapponesi abbiano minimizzato le responsabilità e le conseguenze delle politiche imperialiste nelle varie guerre, in un itinerario che va dall'invasione della Manciuria alla guerra del Pacifico, fermandosi, insieme a una compagnia teatrale, al 6 agosto 1945, quando l'ignara popolazione di Hiroshima avrà il proprio appuntamento con la Storia.
Obayashi si concentra su coloro che nei conflitti transitano e vi inciampano, ridicolizzando la retorica militarista ed eroica che in Giappone è stata per secoli un totem culturale (si pensi allo stesso bushidō). Originale l'idea di dedicare un segmento alla guerra di Boshin, guerra civile che completò la Restaurazione Meiji: Obayashi mette in risalto la storia della onna-bugeisha (donna-guerriera) Nakano Takeko morta da vera samurai nella battaglia di Aizu, come parte dei componenti del Byakkotai (Corpo della "Tigre Bianca"), samurai adolescenti che commisero seppuku pensando erroneamente che il castello da loro difeso fosse caduto in mano nemica. E ancora, vale la pena citare un episodio oscuro della guerra del Pacifico combattuta in seno al secondo conflitto mondiale, ossia il dramma di migliaia di abitanti di Okinawa, spinti dall'esercito a suicidarsi affinché potessero lasciare a loro le provviste e continuare la resistenza contro il nemico americano. Infine, l'ultimo pannello, in cui Obayashi si concentra sul rapporto tra i giovani e una compagnia d'attori (guidata dal rinomato Sadao Maruyama, all'epoca ammalato di tisi) nell'inevitabile approssimarsi della fine della Seconda Guerra Mondiale e del tragico lampo della detonazione nucleare: la parola pika, lampo, diviene un leitmotiv via via più temibile fino all'accettazione dei tre protagonisti della tragedia a cui i loro amici sono destinati.
Il messaggio pacifista di Obayashi è genuino ma non ingenuo: consapevole dell'impossibilità di mutare il corso degli eventi, egli provoca ai personaggi, e di conseguenza agli spettatori, reiterati shock così innestando in loro l'aspirazione a un mondo diverso e un rifiuto di farneticanti ideologie razziste e belligeranti; la conoscenza della storia per mezzo del cinema è uno strumento di critica utile a diradare le nebbie del presente.
Non è un caso che Obayashi attinga alla tradizione dei cineasti umanisti, stelle polari a cui affida l'etica del proprio lavoro. A partire dal Masaki Kobayashi della trilogia "La condizione umana", passando per Frank Capra e John Ford (quest'ultimo interpretato dallo stesso regista in un cameo); un a parte è dedicato a Ozu e all'amico Sadao Yamanaka che appaiono insieme in una scena malinconica dove ricordano la loro chiamata alle armi nella guerra sino-giapponese. Le didascalie - onnipresenti anche sotto forma di cartelli - ci avvertono che il primo tornerà a girare film, benché mai di argomento bellico, il secondo invece morirà in Manciuria a nemmeno trent'anni. Anche questi dettagli che possono superficialmente apparire rimandi cinefili, sono invece simboli di una più universale cultura pacifista e in seno ad essa s'iscrive la politicità di "Labyrinth of Cinema", che rappresenta una netta presa di posizione contro il riarmo generale finanziato dal governo presieduto da Shinzo Abe – politica che ha preoccupato anche altri colleghi (si pensi a Shin'ya Tsukamoto e ai suoi ultimi due film, "Fires on the Plain" e "Killing").
Sul piano estetico Obayashi adopera il digitale acuendone le possibilità di manipolazione infantile dell'immagine, tra viraggi in blue, una palette cromatica ipersatura e un profluvio di sequenze i cui sfondi sono costruiti tramite l'uso del matte painting. Tale tecnica dona un singolare effetto collage al lavoro, poiché le figure umane appaiono spesso come ritagliate e incollate su fondali dai margini evidenti, come se si stessero sfogliando delle illustrazioni di un libro. Sebbene gli esiti siano alquanto diseguali, sia perché il digitale rende immagini già artificiose stranianti, sia perché l'illuminazione è troppo piatta e statica per potersi coniugare alle scene ospitate, non mancano sequenze sorprendentemente potenti, poetiche o semplicemente divertenti. Obayashi è rimasto fedele a un'idea gioiosa di cinema e di sperimentazione artigianale dai primi corti e "Hausu - House" fino alla fine dei suoi giorni, credendo con una passione naif e ammirevole alla magia di quest'arte e al potere di un linguaggio surrealista la cui combinazione di immagini di differente grado e tonalità suscitino emozioni più intense rispetto a quelle costruite seconda una logica lineare e causalistica. Uno dei momenti più alti e memorabili di "Labyrinth of Cinema" si svolge sulla spiaggia di Okinawa, quando un ufficiale dal baffetto hitleriano urla al capo-villaggio di fare qualcosa per il paese; quest'ultimo, inerme, gli chiede se egli può definirsi un giapponese virtuoso, scatenando la reazione violenta del militare che rantola "E tu okinawese? Sei un giapponese?". Le parole del capo-villaggio ferito a morte sono schiette e semplici: "Sono un uomo!". È forse il commiato più bello e commovente di un irriducibile maestro del cinema che ci invita a resistere al Male e all'orrore con la migliore delle nostre armi: l'umanità.
cast:
Takahito Hosoyamada, Rei Yoshida, Riko Narumi, Takako Tokiwa, Tadanobu Asano, Yukihiro Takahashi, Takuro Atsuki
regia:
Nobuhiko Obayashi
titolo originale:
Umibe no eigakan – Kinema no tamatebako
durata:
179'
produzione:
PSC
sceneggiatura:
Nobuhiko Obayashi, Tadashi Naito, Kazuya Konaka
fotografia:
Hisaki Sanbongi
scenografie:
Koichi Takeuchi
montaggio:
Nobuhiko Obayashi
musiche:
Kosuke Yamashita