Boris Lojkine, regista transalpino, dopo "Hope" (2014), ambientato nel Cameroun e "Camille" (2019), le cui location sono nella Repubblica Centrafricana, gira il suo terzo lungometraggio in Francia, mantenendo tuttavia rigorosamente il proprio focus sull’Africa. A dimostrazione di quanto sia profondo il civismo e l’impegno professionale nei confronti del continente nero, basti una sua dichiarazione: “Detesto i film che usano l’Africa come sfondo decorativo”. E "La storia di Souleymane" non è che un altro tassello utile alla comprensione dell’universo africano.
Preferendo ancora una volta il film di finzione al taglio documentaristico, Lojkine tratteggia le vicende biografiche di un immigrato originario della Guinea (interpretato dall’esordiente Abou Sangare), arrivato in Francia e deciso ad ottenere un permesso di soggiorno dall’OFPRA parigino. L’arco cronologico abbracciato nel film è di soli due giorni, cui il regista da pienezza e rotondità narrativa grazie a un sapiente lavoro di montaggio. La coincidenza narrativa di incipit e conclusione, ad esempio, amplifica il senso di attesa e la dimensione eroica del protagonista, grazie alla scelta di immergerlo per pochi secondi nel silenzio ovattato degli auricolari. Nel resto della trama, il protagonista è costantemente al centro della diegesi e la brulicante realtà della banlieux parigina gli ruota attorno letteralmente dall’inizio alla fine.
Il lavoro del regista è proficuo su diversi livelli. Soprattutto per la durata delle sequenze, che si susseguono frequenti e piuttosto brevi, ma allo stesso tempo asciutte, suscitando già di per sè l’impressione del ritmo frenetico delle due giornate del protagonista, rapide e con l’alienante ripetitività scandita dalla tirannia degli orari e delle consegne. Il senso della fatica, del dover vivere di corsa e alla giornata è reso grazie a ellissi temporali e sommari ben ponderati: l’esclusione del superfluo, sia sul piano diegetico, sia su quello della messa in quadro, è l’estrinsecazione filmica di una vita votata al sacrificio. Sì, perchè Souleymane è un raider, uno dei tanti fattorini in bicicletta che si scapicollano per le vie della capitale, una città che non ha nulla di romantico, tanto è vero che non ci accorgeremmo di esserci se non ci venisse ricordato grazie all’appellativo ironico con cui i colleghi chiamano ogni tanto il protagonista: “Souleymane di Parigi!”. Della metropoli vengono mostrati gli untuosi fastfood, i bistrot coi camerieri dai modi spicci, la metropolitana popolata da anonimi viaggiatori e i pullman appannati dalle ciondolanti e assonnate teste dei pendolari, tra le quali vi è anche quella del protagonista.
La Parigi che va di fretta non offre di sè scorci distensivi anche per le strette inquadrature sul protagonista, come ritagliato dal contesto urbano. La macchina da presa, che a tratti ricorda quella dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, tallona Souleymane da dietro, di fianco, talvolta lo precede, talaltra sobbalza. Fin dall’inizio, distanza e modalità di ripresa del protagonista rendono perciò lo spettatore partecipe delle sue traversie. Nei momenti di tensione lo inducono quasi a sospingere la sua bicicletta. Solo nella parte finale del film, quando Souleymane si trova di fronte all’impiegata dell’OFRA, lo stile di ripresa è più pacato, con il classico alternarsi di campo e controcampo.
Per quanto riguarda invece la gestione del sonoro, l’assenza delle musiche extradiegetiche fa gravitare gli occhi dello spettatore sul volto tenace e ostinato del migrante e drizzare le orecchie al ronzio della pedalata, soprattutto quando, a seguito di un incidente, si percepisce che il ritmo della falcata non è più uniforme. E poi c’è il senso della velocità, della frenesia, con la spada di Damocle delle scadenze e dei debiti che pende di continuo: basta una consegna in ritardo, una confezione stropicciata o una qualsiasi lamentela di un cliente e quel lavoro, precario ma vitale, può svanire in men che non si dica. L’estraneità del protagonista al contesto urbano è poi motivata dal fatto che, durante l’espletamento delle consegne, questi è impegnato nel ripetere e memorizzare le informazioni (in parte false) da fornire, come detto sopra, all’ufficio immigrati. A questo proposito c’è da dire che il cellulare appare come strumento indispensabile a garantire tanto i legami interpersonali, quanto i contatti lavorativi: vero e proprio cordone ombelicale della socialità, consente al protagonista di lavorare, prenotare il posto letto, il pasto notturno la corsa del pullman, e interloquire infine con la ragazza che è rimasta in Guinea.
Souleymane è un personaggio umile ma volitivo, e nella semplicità e scrupolosità con le quali vive e lavora può ricordare ad esempio il protagonista del recente "Perfect Days", di Wim Wenders, ovviamente al netto dell’intimismo nipponico. L'accostamento tra le due opere è favorito anche dal ristretto lasso di tempo in cui si svolge la narrazione. L’universo di Lojkine è il ritratto riuscito di coloro che, pur essendo ultimi, mantengono la propria dignità. Proprio come un film girato con pochi mezzi e attori non professionisti, ma con la necessaria maestria. A La storia di Souleymane è andato il Premio della Giuria e quello al miglior attore per la sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes.
cast:
Abou Sangare, Nina Meurisse, Emmanuel Yovanie, Younoussa Diallo
regia:
Boris Lojkine
titolo originale:
L'histoire de Souleymane
distribuzione:
Academy Two
durata:
93'
produzione:
Unité
sceneggiatura:
Delphine AgutBoris Lojkine
fotografia:
Tristan Galand
scenografie:
Géraldine Stivet
montaggio:
Xavier Sirven
costumi:
Marine Peyraud