Stella è sospesa sul cornicione in attesa di lasciarsi cadere nel vuoto. Indossa un fradicio vestito da sposa e il trucco che le cola dagli occhi non fa altro che acuire in noi un profondo senso di dolore e disperazione. È un ininterrotto suono del campanello a salvarla/rianimarla dal tragico e imminente gesto. Attraverso un convincente prologo in medias res, Stefano Lodovichi introduce lo spettatore al suo terzo lungometraggio, distribuito in esclusiva sulla piattaforma Amazon Prime Video. Un film da camera essenziale e scarno nello sviluppo formale ma che, per contro, non lesina in quanto a emozioni e contenuti. In uno spazio/tempo indefinito e circoscritto da una pioggia incessante che compone il leitmotiv della pellicola, i personaggi entrano in scena un po’ alla volta come in un copione scritto da Harold Pinter. Giulio (Guido Caprino) e Sandro (Edoardo Pesce) accompagnano Stella (Camilla Filippi) in un turbinio di emozioni figlie di intricati rapporti familiari, perdizioni genitoriali, crisi di coppia, che abbracciano la presa di coscienza e raggiungono il terrore, fino a culminare nella più efferata violenza.
C’è solo un protagonista che regna indisturbato dal primo all’ultimo minuto e che racchiude l’essenza dell’opera: è la casa. Allestita dallo scenografo Massimiliano Sturiale in stile art nouveau, la dimora è sinonimo di riparo e protezione ma fatica a nascondere le crepe del suo passato ed è pronta a palesarsi quale prigione, gabbia, mostro che fagocita tutte le persone che la abitano. “I pugni in tasca”, “Shining”,” The Others”, “Psyco” sono solo le citazioni più influenti che albergano fino alla prima mezz’ora, con il thriller psicologico come genere di riferimento scelto da Lodovichi. Nella seconda parte avviene invece il cambio di registro e la messa in discussione della realtà, predilezione già vista nel precedente “In fondo al bosco” del 2015 (col quale condivide anche il tema genitori/figli). A colpire è lo sconfinamento del personaggio di Giulio che da semplice uomo misterioso diviene un’entità indefinita, mostruosa. La scelta del regista grossetano di adottare una scrittura dalle tinte metafisiche è la sorpresa più gradita perché sottolinea una genuina, sebbene acerba in certi frangenti, intimità autoriale e una spinta narrativa scevra da punti di riferimento.
“La stanza” nasce da un progetto documentaristico sugli Hikkikomori e solamente in seguito si è sviluppato (in videochiamata su Zoom in tempi di Covid) in un film di finzione, girato nel tempo record di 17 giorni e montato nell’arco di un mese. L’ispirazione è arrivata da una citazione (l’ennesima) contenuta in Dracula di Bram Stoker, firmato da Coppola: “ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”. L’odissea è quella di Giulio, convinto a rimischiare le carte del passato per rivivere il sentore materno ma al contempo per punire mentalmente e carnalmente i soprusi subiti da un passato mai dimenticato. Il rimpianto è forse quello di non aver sviluppato e focalizzato un ulteriore livello di scrittura al personaggio di Guido della seconda parte e in quella finale, resta però l’indubbio coraggio nell’aver saputo destreggiarsi con funzionalità tra i meandri di un racconto che non perde mai di vista la propria anima, quella di denudare le colpe genitoriali. Per quanto citazionista, frettoloso, rischioso, possa essere, “La stanza” merita dunque una spinta propositiva anche per un paio di sequenze niente male (il ballo solitario di Caprino sulle note di “Stella Stai" di Tozzi, il piano sequenza a tre voci sul tavolo) e per un livello recitativo notevole che ha nella performance di Caprino il risvolto più avvincente.
cast:
Guido Caprino, Camilla Filippi, Edoardo Pesce
regia:
Stefano Lodovichi
titolo originale:
La stanza
distribuzione:
Lucky Red
durata:
85'
produzione:
Andrea Occhipinti
sceneggiatura:
Stefano Lodovichi, Francesco Agostini, Filippo Gili
fotografia:
Timoty Aliprandi
scenografie:
Massimiliano Sturiale
montaggio:
Roberto Di Tanna
costumi:
Massimo Cantini Parrini
musiche:
Giorgio Giampà