Quando si parla di cinema indipendente statunitense, è probabile che il nome di Tom McCarthy, in relazione alla situazione degli ultimi anni, possa essere citato con una certa facilità. Originario del New Jersey, un passato abbastanza recente da attore di commedie, egli ha incontrato il successo dietro la macchina da presa in due riprese, prima con "L'ospite inatteso" e poi, soprattutto, con "Il caso Spotlight". Il suo, però, è un cinema che di indipendente ha poco e vale la pena cominciare la disamina sul suo ultimo film da questo punto perché è proprio questo malinteso che merita di essere chiarito prima di ogni altra cosa. Fra le caratteristiche irrinunciabili, una pellicola indie deve infatti avere la mancanza di filtro della produzione rispetto alla vena creativa dell'autore. Il film, prodotto senza l'intervento dell'industria cinematografica se non quando addirittura autoprodotto, viene realizzato senza alcun compromesso fra regista/ideatore e casa di produzione/distribuzione. "La ragazza di Stillwater", però, registra l'intervento di una major come la Universal e questo elemento cambia completamente l'approccio alla pellicola. Non è il "tipo" di protagonista, la scelta stilistica, l'ambientazione "periferica" a fare la differenza; è, piuttosto, un linguaggio cinematografico adottato che, nell'opera che McCarthy ha presentato fuori concorso all'ultimo Festival di Cannes, è assolutamente coerente con la tendenza contemporanea del mainstream hollywoodiano. Dunque, sfatiamo questo mito: il cinema di McCarthy è un cinema totalmente commerciale, di largo consumo, un modo di intendere il racconto filmico in coerenza con i dettami dell'industria californiana. Così possiamo allora spiegare gli snodi edulcorati, il rispetto di una serie di convenzioni narrative (l'uomo medio americano, la provenienza provinciale, l'attrazione per la cultura diversa) e la prevedibilità con cui la pellicola evita determinati approfondimenti di caratteri.
"La ragazza di Stillwater" è cinema di contrasti elementari, messi in scena con grande professionalità, con immagini rese dalla macchina da presa affascinanti e godibili: una visione piana ma accogliente, non originale ma comunque in grado di risultare soddisfacente. È la storia di un operaio che parte dall'Oklahoma per andare a trovare, in Francia, a Marsiglia, sua figlia in carcere, accusata dalla giustizia di aver ucciso un'altra ragazza, di cui era innamorata. È la storia di come Bill (interpretato da Matt Damon) incontra in terra straniera le difficoltà di chi non si è mai dovuto preoccupare fino a quel momento di confrontarsi con la diversità culturale, una difficoltà che sfocia nell'incomunicabilità per colpa delle lingue differenti. Ed è anche l'occasione, "La ragazza di Stillwater", per descrivere, ancora una volta, la parabola di un uomo medio americano, mediamente retrogrado, mediamente conservatore, mediamente razzista, mediamente chiuso al nuovo, costretto a rivedere le sue priorità una volta che si accorge della vastità del mondo al di fuori dei confini del suo Paese. Il film di McCarthy ha due facce: il volto thriller del padre che tenta di indagare e scagionare la figlia a dispetto dei percorsi legali e quello melodrammatico dell'uomo sperduto all'estero, che trova un appiglio in un'attrice francese e in sua figlia, che fa il punto sul fallimento della sua vita.
Tutto l'impegno di McCarthy, che ha anche scritto la sceneggiatura insieme a Marcus Hinchey, Thomas Bidegain e Noé Debré, si infrange nell'impossibilità di andare oltre l'equazione scontro culturale = incomunicabilità linguistica. Sotto questo profilo, per l'appunto, "La ragazza di Stillwater" è un film indipendente solo sulla carta, mentre è in realtà davvero inserito in un circuito produttivo in cui gli elementi narrativi devono essere scarnificati di qualsiasi complessità, semplificati per un uso e consumo diffuso su larga scala. Laddove l'opera si fa più interessante è proprio sull'altro fronte, paradossalmente quello meno ambizioso e sicuramente meno inedito. Il cinema americano, ancora una volta, come spesso accaduto in questi ultimi anni, trova la sua miglior fonte d'ispirazione nel riflettere sulle contraddizioni del ceto medio e della classe operaia. Il personaggio di Bill, infatti, acquista complessità con il passare dei minuti, affrontando una storia di via crucis e demolendo a poco a poco una serie di convinzioni che hanno caratterizzato la prima parte della sua vita. L'operaio Bill, in realtà, non è mai stato militante in alcun campo, le sue idee non sono frutto di un'appartenenza politica o sociale; McCarthy lo descrive come un uomo semplicemente trascinato dalla consuetudine, da quel "piccolo mondo" della provincia profonda dove l'americano medio, se si sente al sicuro, non guarda mai oltre i confini della sua città di provenienza. Lo spunto più interessante de "La ragazza di Stillwater" è questo lavoro sul personaggio e sul suo farsi incerto di fronte agli eventi esterni, rispetto a un'origine inscalfibile del suo stile di vita. Come era successo con Richard Jenkins ne "L'ospite inatteso", anche stavolta McCarthy fonda il suo lavoro artistico sulle abilità del protagonista. Ormai cinquantenne, Damon incarna ormai nei suoi ruoli un misto di caratteristiche mutuate da alcuni maestri con cui ha lavorato in passato: l'ineluttabilità del destino secondo Clint Eastwood, il lato grottesco dell'esistenza secondo Steven Soderbergh, la fascinazione per le azioni valorose secondo Ridley Scott. Il suo percorso attoriale, solido e affidabile, risulta uno dei più efficaci nell'America contemporanea. Diverso, in conclusione, il giudizio che possiamo dare del cinema di McCarthy, ancora acerbo e privo di mordente nonostante i tanti titoli ormai sulle spalle. Potremmo definirlo un onesto cinema medio: l'attesa è per una folgorazione a metà del cammino sul modello proprio dei suoi personaggi meglio riusciti.
cast:
Matt Damon, Camille Cottin, Abigail Breslin, Lilou Siavaud, Deanna Dunagan
regia:
Tom McCarthy
titolo originale:
Stillwater
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
140'
produzione:
Anonymous Content, Slow Pony
sceneggiatura:
Tom McCarthy, Marcus Hinchey, Thomas Bidegain, Noé Debré
fotografia:
Masanobu Takayanagi
scenografie:
Philip Messina
montaggio:
Tom McArdle
costumi:
Karen Muller Serreau
musiche:
Mychael Danna