Il suono ritmico e tribale di uno jambè salverà il mondo? Probabilmente no, ma è in grado forse, al giorno d'oggi, di azzerare buona parte dei pregiudizi razziali e culturali di cui la società americana moderna è ancora fortemente vittima. Come se il potere caldo della musica sovrastasse la freddezza burocratica delle parole e consentisse di vedere al di là del colore della pelle o della lingua parlata. Quella che Tom McCarthy (regista e sceneggiatore) ci propone con "L'ospite inatteso" (in inglese "The visitor", termine ben più adatto e ambiguo a seconda dei punti di vista) è una riflessione quantomai attuale e veritiera, in un Paese in cui il ricordo dell'11 Settembre è ancora doloroso ed ingombrante (il richiamo, iconografico e non, alle Due Torri è una costante del film) ma che forse, dopo le elezioni, è giunto ad un definitivo punto di svolta.
Il simbolo di ciò è Walter, figura solitaria e intransigente, professore stanco del lavoro, intrappolato e sofferente nei meccanismi classisti della sua upper class ma destinato tuttavia ad un cambiamento radicale dopo l'incontro con l'immigrato siriano Tarek.
Lo jambè, suonato da quest'ultimo, si contrappone quindi col suo calore e la sua vitalità al rigido e (perché no) triste pianoforte, suonato invece dalla moglie defunta di Walter, così che la sua evoluzione caratteriale (riassunta e concisa tutta nell'espressività della faccia segnata di Richard Jenkins, attore feticcio dei fratelli Coen, qui finalmente e meritatamente in un ruolo da protagonista) passi soprattutto attraverso l'uso di questi due semplici strumenti musicali.
Il suo esempio è però isolato, e così c'è anche chi negli anni 2000 è convinto che Senegal e Città Del Capo siano due luoghi vicini (l'episodio della bancarella), accomunati magari solo nel loro essere "al di fuori degli Stati Uniti". Una ignoranza che persiste, aumentata dal pregiudizio e dalla retorica e nascosta da slogan patriottici o dal vessillo di bandiere a stelle e strisce esposte ovunque, anche sulla soglia di un sofferto addio.
Sotto questo forte messaggio sociale (che rende il film molto più aspro e duro di quanto la campagna promozionale volesse far credere) si cela però un lavoro non perfettamente riuscito: passi per la prima parte del film, col tono scanzonato di una commedia alla "East is East", ma dopo l'arresto di Tarek il plot aggiunge quasi dal nulla il personaggio di sua madre Mouna, che nel riportare l'atmosfera verso un ambito più drammatico ha, però, il demerito di affossare del tutto anche quella vitalità iniziale che aveva fatto ben sperare. Una austerità che sfocia ben presto nella ripetitività, stilistica e non (i dialoghi in cella, l'uso insistito del campo/controcampo), nella piattezza di idee (ancora una love-story?), in alcuni casi anche nella - ahimè - noia.
Il finale intenso, amaro e a suo modo significativo, affidato di nuovo alla bravura interpretativa di Jenkins, lascia l'impressione che una storia di questo tipo, sotto altre mani sia in fase di scrittura che di realizzazione, avrebbe potuto rendere molto meglio.
12/12/2008