Fin dal suo
primo capitolo la saga di "The Purge" ha sempre mantenuto un legame tanto netto quanto simbolico con la contemporaneità statunitense, in linea con quella corrente del cinema americano che ha sempre visto nei generi più ai limiti (in teoria) del mainstream un efficace mezzo per evidenziare a questo ultimo tutta una serie di concreti
orrori della realtà esterna allo schermo, ovviamente resi in chiave, più o meno, allegorica. "La prima notte del giudizio", ancor più del precedente "
Election Year", è il film della tetralogia che esplicita maggiormente la sua natura politica e che riduce le distanze tra simbolico e concreto, come la prima sequenza afferma a gran voce sovrapponendo una
voice over che descrive lo sprofondare degli USA in una nuova crisi e l'affermazione di Nuovi Padri Fondatori a immagini di disordini e saccheggi del nostro mondo (ma sulla veridicità di alcune è più che legittimo avere dubbi), con particolare attenzione agli slogan di quelli (parafrasi di "
Make America Great Again", ovviamente).
Il focus sulla ghettizzata comunità afroamericana di Staten Island, così come la contrapposizione maschile-femminile, permette difatti di rimarcare, con ormai eccessiva insistenza, la visione degli Stati Uniti sostenuta da James DeMonaco dal 2013 a oggi (di cui il distretto newyorkese, al centro del suo cinema fin dall'esordio del 2009, è emblema), ovvero di una nazione dalla violenza connaturata e tesa alla manipolazione della popolazione mediante slogan semplici e politiche ispirate al latino "
panem et circenses". Queste retoriche, usate da decenni per descrivere la civiltà americana, hanno trovato negli ultimi anni una diffusione considerevole anche all'interno delle grandi produzioni ultra-mainstream, come la saga in questione e "
Hunger Games" possono testimoniare meglio di ogni altra opera. Discutere di come questo rappresenti la percezione americana di una società sempre più ossessiva e opprimente, specialmente da parte delle sempre più in crisi élite
liberal, potrebbe forse dire qualcosa riguardo all'enorme successo di questi blockbuster ma è opportuno chiedersi quanto sia sensato farlo in questa sede.
Anche cinematograficamente parlando il film in questione riserva ben poche sorprese: lo stile visivo e la regia sono quelli concisi e realistici di matrice carpenteriana adottati già da DeMonaco, nonostante il ricorso crescente col proseguire dello Sfogo di
ralenti, zoom e altri artifici intensificanti (pur già presenti nei momenti topici dei film precedenti) riveli l'influenza di
Michael Bay anche sotto il profilo estetico, mentre la colonna sonora alterna brani
trap ai
synth tensivi sdoganati da Hans Zimmer, questi ultimi nella loro incarnazione più distorta e
glitch frequente in questi anni, e la sceneggiatura del non più regista dimostra la propria ambizione solo tramite gli spiegoni di alcuni personaggi e certe scene che vorrebbero essere simboliche (la sottomissione e poi l'enucleazione della scienza, l'imprevedibilità della morte, etc...) ma che si limitano ad essere didascaliche. Sono difatti gli sviluppi prevedibili e i personaggi stereotipati (gli altri capitoli al riguardo perlomeno si permettevano qualche guizzo) a sancire la velleitarietà delle brame di esplicazione della situazione socio-politica attuale da parte della pellicola.
Questo porta a un altro implacabile confronto a cui abitualmente la saga de "La notte del giudizio" viene sottoposta, ovvero quello con i numi tutelari del cinema thriller/horror politico a stelle e strisce, ovvero
George Romero e
in primis John Carpenter. Infatti laddove i succitati registi sono stati capaci di trascendere la manifesta componente di critica sociale in film di genere in cui suddetto elemento era perfettamente inserito nella struttura simbolica McMurray si limita a realizzare un action thriller come se ne vedono molti, i cui contenuti socio-politici appaiono, per quanto sentiti, superficiali e pertanto fuori luogo. Ma sotto questo punto di vista, come si è già accennato, "The First Purge" perde il confronto anche coi film precedenti, in special modo
il primo, il cui minor budget e il contesto molto meno caratterizzato permettevano alla già allora fragile allegoria hobbesiana di sostenersi grazie alla sostanziale astrattezza dell'impianto narrativo, cui dava sostegno anche l'essenziale e ellittica regia. Lo scopo di questo quarto capitolo è forse in fin dei conti l'anticipazione dell'adattamento seriale di questa saga targata Jason Blum (ormai un Roger Corman dei nostri tempi), al debutto in autunno sul piccolo schermo (ha ancora senso quest'espressione?) sempre scritta e prodotta dal suo iniziatore: preventivamente si può confidare che nelle tempistiche dilatate e nella frammentazione narrativa della serialità le episodiche e didascaliche vicende dello Sfogo possano trovare un'espressione migliore.