Il cinema di Jayro Bustamante, nato e cresciuto in Guatemala, ha una portata che abbraccia la realtà contestuale e sociale della terra natia del regista. "La Llorona" prosegue il suo progetto cinematografico che colloca al centro il popolo Kachiqel fin dall’esordio naturalista ("Volcano", 2015), nativi delle terre mesoamericane, ceppo tutt’oggi facente parte del gruppo etnolinguistico Maya. Con questo film Bustamante assomma al problema politico del paese quello della figura femminile all’interno di una cornice privata eppure coinvolta pubblicamente: l’ex leader militare Pablo Monteverde si rifugia nella sua villa con le componenti della famiglia e con le domestiche mentre all’esterno la popolazione invoca giustizia politica per il suo crimine di genocidio ai danni degli autoctoni Kachiqel.
Collocare il folclore
Il titolo preannuncia l’elemento folcloristico della vicenda, quello della figura della Llorona, spettro femminile piangente che, tradita dall’amore del suo uomo in vita, annega i propri figli per poi togliersi la vita e, mossa dal dolore, tornare dalla morte per tormentare i viventi. La tradizione orale con cui è stata tramandata questa leggenda ha diverse varianti, condividendo tra le stesse alcuni elementi importanti: l’unione di un uomo e una donna differenti, per etnia o classe sociale, e la vendetta femminile connessa alla perdita dolorosa dei figli (a volte per parricidio).
"La Llorona" comincia precisamente con la messa in scena di un ambiente borghese, la villa di Monteverde, in una divisione compartimentata dei suoi abitanti: esemplari e significativamente trancianti le scene iniziali che accostano le litaniche preghiere delle donne alle discussioni politiche degli uomini.
Uno scarto che nel corso della narrazione si ripeterà poiché Monteverde, una volta assolto dalla giustizia per mancanza di prove, è l’unico uomo all’interno di un microcosmo di sole donne [1]. Le sue cure sono affidate ai membri della sua famiglia effettiva (moglie-figlia-nipote) e a quella che ci viene suggerita essere una costola famigliare altra: le domestiche Alma e Valeriana.
In questo microcosmo famigliare alternativo e alterato dall’arrivo della sconosciuta Alma, i rapporti dell’unica figura maschile all’interno della casa permettono di ricollocare la Llorona[2], parricida per vendetta privata, in una luce alternativa: Alma si muove per vendicarsi di un atto compiuto ai suoi danni e anche direttamente connesso alla sua gente. Il nucleo al contempo egoistico e pubblicistico (e inevitabilmente morale, da un certo punto di vista) di tale azione, per quanto prevedibile, verrà alla luce attraverso fugaci tappe oniriche.
La modifica di scrittura che Bustamante apporta alla figura del folclore coinvolge chiaramente ogni personaggio femminile della casa: si guardi all’aspetto genealogico dei legami di sangue, sospettosamente legato alla popolazione nativa attraverso la domestica, e finanche famigliare nel ruolo che assumono uomo e donna. Difatti è preminente la connotazione di una donna mater che assiste il leader politico (tutte le donne se ne prendono cura, attraverso la medicina e la ritualistica). Persino Alma, lo spirito vendicativo, porta nel nome una semantica nutrice, pur serbando il seme del rancore.
L’evidenza che Bustamante dà alla figura della donna può essere paragonata alla voce che "La Llorona" concede alle popolazioni indigene con la loro collocazione in un prodotto di consumo come il film per cercare di rendere disinibito il tabù di quello che viene appellato come genocidio silenzioso.
Prigionia e politica
Bustamante riflette sulla tragedia privata, riferendosi implicitamente attraverso Monteverde al genocidio guatemalteco avvenuto tra il 1981 e il 1983, per rinchiuderla in una serie di micro-prigionie: tutti i personaggi sono costantemente collocati in interni (le stanze della villa, l’aula giudiziaria) e gli esterni sono posti asfissianti (attraverso una camera stretta sui soggetti, questi momenti appaiono soffocanti, non lasciando spazio per gli sfondi) abbracciati in un costante grandangolo deformante. Un ulteriore anello di prigionia è dato dalla popolazione in protesta che costringe i protagonisti in casa, senza possibilità di sfuggire al consumarsi dei paradigmi del genere.
L’utilizzo di Bustamante dei codici dell’horror è tanto scolastico quanto preciso, in una messa in scena ritualistica di tutti gli elementi classici e delle tappe del genere: musiche, fotografia cupa e persino l’apice del rituale in coda al film ricalcano i contorni del cinema sovrannaturale. La storia di fantasmi può dirsi compiuta attraverso i suoi standard, nobilitandola alla maniera di James Wan (prevalente la macchina fissa), abitante le riflessioni che Bustamante custodisce sotto allo strato politico e dell’orrore: il ruolo della donna nel politicare famigliare e, certamente, anche la senilità dei corpi e il loro mutato desiderio sessuale; oltre che il rapporto con la bugia e l’ipocrisia.
Lo stesso regista rivela che a seguito di uno studio del mercato cinematografico tra i generi di maggior seguito vi sarebbero stati quello sui supereroi e quello horror, confermando la scelta di una rappresentazione classica di suddetto genere, dunque commerciabile e infine di immediata fruizione[3].
Il processo di esposizione delle culture meno frequentate dal cinema e rappresentate attraverso il film di genere non è troppo dissimile da quanto fatto da Ciro Guerra in "Oro verde" con il dramma criminale. Se anche la figura della Llorona porta con sé gli aspetti frequenti di questo tipo di horror senza aggiungervi una riscrittura, neanche a livello visivo, il modo di esportarli con una tenuta rigorosa, priva di esasperazioni e anzi attenta e trattenuta, permette uno studio sulla composizione degli spazi. Il loro riempirsi e svuotarsi di segni prolissi quanto prolifici (si pensi al continuo modo di sottolineare la dispersione mentale di Natalia, figlia di Monteverde, in particolare la scena a camera fissa sulla scala sulla quale rimarrà seduta, infine, unicamente la suddetta donna; o al modo stravolto e angosciante con cui la moglie di Monteverde abita la casa suggerendo un decadimento quasi maligno, ma invero sofferente) allontana quasi completamente gli abitanti della casa da tutto ciò che c’è al di fuori del loro giardino, conducendo la riflessione politica sulle cicatrici del Guatemala alle stanze borghesi del suo carnefice. Fugace eppure importante è la presenza delle donne Kachiqel nel tribunale di Stato, inquieti volti velati, silenziate dalla decisioni politiche. Questa presenza permette a "La Llorona" di sottolineare politicamente un atto incompiuto, risolto nella sovrannaturale vendetta della finzione filmica che potremmo anche leggere come un’innaturale rappresentazione di genere su schermo dell’inevitabile consumarsi di rabbia e menzogne domestiche (osservate chi compie il gesto sul finale e meditate di chi siano, inconsciamente, le intenzioni di compierlo).
[1] La figura maschile della guardia del corpo Letona è tanto accessoria quanto letteralmente ininfluente (soprattutto verso gli aspetti sovrannaturali della vicenda), serve piuttosto a rimarcare la differenza tra le figure maschili e quelle femminili. Il nome potrebbe indirettamente suggerire per assonanza la figura mitologica greca di Leto, ennesima compagna allontanata da Zeus e madre di Apollo e Artemide, collegata alla maternità. Si prenda questa suggestione con le pinze poiché nulla è a conferma di questo riferimento.
[2] La Llorona nel cinema: "La Llorona" di Ramón Peón del 1933 e l’omonimo di Michael Chaves, entrambe rappresentazioni classiche per il sovrannaturale quale forza maligna.
[3] Canale YouTube Film at Lincoln Center, minuto 06:10.
cast:
María Mercedes Coroy, Sabrina De La Hoz, Margarita Kenéfic, Julio Diaz, María Telón, Juan Pablo Olyslager
regia:
Jayro Bustamante
titolo originale:
La Llorona
durata:
93'
produzione:
La Casa de Producción, Les Films du Volcan
sceneggiatura:
Jayro Bustamante, Lisandro Sanchez
fotografia:
Nicolás Wong Diaz
scenografie:
Sebastián Muñoz
montaggio:
Jayro Bustamante, Gustavo Matheu
costumi:
Lisandro Sanchez
musiche:
Pascual Reyes