“Solo una contrazione della bocca, simile ad un sorriso amaro,
mostrava che egli viveva e soffriva”
(Emilio Lussu, “Un anno sull’Altipiano”)
Un successo osteggiato da molti
Un anno dopo il successo de “I soliti ignoti”, che aveva rappresentato uno spartiacque nella carriera di Mario Monicelli e aveva reso internazionale la sua fama, il cineasta e sceneggiatore toscano si confronta per la prima volta con un soggetto storico ne “La grande guerra”, che riadatta la novella di Maupassant “Due amici”, ambientandola tra le trincee alpine del primo conflitto mondiale.
Non è l’unica incursione nella storia italiana della filmografia monicelliana - che spazierà anzi dalla Roma papalina de “Il marchese Del Grillo” (1981) alle rivolte operaie di fine Ottocento de “I compagni” (1963) - ma è certamente la più complicata e difficile.
Pochi anni prima, infatti, erano usciti nelle sale di tutto il mondo alcuni film con cui era inevitabile confrontarsi, divenuti poi col tempo dei veri e propri cult del war-movie: da “Prima linea” (1956) di Robert Aldrich, fino a “Orizzonti di gloria” (1957) di Stanley Kubrick, passando per “Il ponte sul fiume Kwai” (1957) di David Lean. Il registro che accomunava tali pellicole era quello epico hollywoodiano che, seppur denunciando gli orrori della guerra, intendeva comunque rappresentare l’eroe secondo la concezione classica. La visione dominante del cinema di guerra è questa.
Non sono molti, di fatto, i film comici ambientati durante la Grande Guerra: tra i pochi titoli citabili ci sono sicuramente “Charlot Soldato” (1918) di Chaplin, girato nell’ultimo anno del conflitto, “Gloria” (1926) di Raoul Walsh e altre due commedie con Stan e Laurel: “Il compagno B” (1932) e “Venti anni dopo” (1938). In tutti questi casi, tuttavia, la guerra rimane un pretesto per l’ambientazione della slapstick comedy e non assurge mai al ruolo di protagonista. Oltretutto la comicità viene qui intesa come un veicolo per il mero divertimento e non mira a quel “riso amaro” che sarà tipico della commedia all’italiana.
Per il resto (e al di là del preciso periodo storico qui in questione), il cinema di guerra in Italia era stato appannaggio della propaganda fascista prima e del neorealismo poi.
Ciò che spinge Monicelli a realizzare un film di ambientazione bellica è soprattutto la volontà di andare “contro la visione agiografica del comportamento eroico del nostro esercito nella guerra del ’15-’18. Una visione alimentata per anni dal fascismo con l’esaltazione della patria e della guerra, dal nazionalismo monarchico anche in funzione antisocialista, ma condivisa a tutti i livelli della popolazione”.
Per fare ciò, la prima mossa è mettersi a studiare: lontano dal voler proporre una rappresentazione inaccurata o imprecisa del conflitto, Monicelli - assieme agli sceneggiatori Age e Scarpelli e Luciano Vincenzoni - inizia a recuperare materiale e a leggere le fonti: da “Con me e con gli alpini” di Jahier, fino a “Giorni di guerra” di Comisso, per continuare con “Vent’anni” di Alvaro e “La vita militare” di De Amicis. Ma vengono considerate anche le “Pagine polemiche” del generalissimo Cadorna e molti altri testi. La fonte principale, tuttavia, è Lussu. I ricordi che l’ufficiale della brigata Sassari raccoglie di ritorno dalla guerra ispirano direttamente diverse scene del film di Monicelli, anche se il suo nome non viene accreditato, al contrario di quanto avverà poi con “Uomini contro” (1971): la pellicola di Rosi che adattava pedissequamente sul grande schermo “Un anno sull’altipiano”.
La lavorazione del film viene osteggiata da subito, e la critica si scaglia contro l’iniziativa di Monicelli. Giuseppe Marotta sconsiglia “caldamente e recisamente la produzione del film sulla Grande guerra perché, se il lavativismo di Sordi e Gassman sopraffarà l’eroismo degli altri commilitoni, gli spettatori non avranno che sogghigni per gli anonimi fanti del Piave e del Grappa”. Dello stesso tenore furono gli interventi di molti altri giornalisti, scrittori e critici, timorosi del fatto che la gentaglia della commedia potesse dissacrare e oltraggiare un argomento così delicato, temendo una farsa che avrebbe messo in cattiva luce il valore degli italiani al fronte e distrutto ogni eroismo, che fino ad allora era stata una componente immancabile di questo tipo di cinema.
Giulio Andreotti, che da ministro della Difesa aveva dato il benestare al copione, si ritrova tutti contro ed è costretto a revocare l’aiuto dell’esercito, che avrebbe dovuto fornire mezzi corazzati, carri armati e cannoni, equipaggiamenti e accessori.
Nonostante le ostilità, Monicelli prosegue le riprese - talvolta in condizioni assai difficili, costretto a girare a Luglio scene ambientate nell’inverno alpino, con gli attori sudati sotto i giacconi pesanti forzati a rotolare nel fango per simulare la lordura delle trincee.
La pellicola viene presentata al festival del cinema di Venezia dove, con lo stupore del regista e della produzione, vince il Leone d’Oro a parimerito con “Il generale Della Rovere” di Roberto Rossellini. Quando esce in sala, il pubblico lo acclama e il film si trasforma in un successo clamoroso
Anche se qualcuno rimane su una posizione ostile, molti critici si ricredono: hanno capito che non c’è alcuna mancanza di rispetto per i caduti e che anzi la memoria delle vittime è innalzata attraverso una rappresentazione più che mai umana dei soldati. La raffigurazione è talmente sincera da impedire l’accusa di sberleffo: il film sa far ridere e piangere assieme, commuove e diverte, la miseria si mescola alla comicità, la risata diventa possibilità di riscatto per quegli ignoti soldati dimenticati, l’ironia diventa distacco e capacità di cogliere lo scarto che esiste tra l’epica della guerra e la realtà della trincea.
Uno strano neorealismo
Nella lunga serie di interviste rilasciate a Sebastiano Mondadori e raccolte nel volume “La commedia umana”, Monicelli racconta: “Ci mettemmo al lavoro per dare un’immagine diversa della Grande guerra: un’immagine finalmente vera. Volevamo smitizzarla per rappresentarla dalla parte dei poveracci che si trovavano in una situazione in cui non capivano niente: per il 70 per cento analfabeti, l’unica loro preoccupazione era riportare in qualche modo a casa la pelle”.
La visione eroica della guerra è quanto di più distante ci sia dalle intenzioni degli autori, che preferiscono riportare profili umani con i quali gli spettatori possano empatizzare. Non combattenti senza macchia e senza paura, ma uomini: con i loro difetti e le loro paure, capaci così di demolire il mito della guerra.
Eliminata l’epica, a essa si sostituisce una “naturalezza sporca di vita”. I personaggi di Jacovacci e Busacca (interpretati da Alberto Sordi e Vittorio Gassman) sono dei perdigiorno, che con gli obbiettivi e le strategie belliche non hanno nulla a che fare, il cui unico obiettivo è sopravviere. Essi sono in linea con i personaggi monicelliani, sempre alle prese con qualcosa di troppo grande per loro, che non sanno gestire e di fronte a cui risultano inetti. Così com’era stato ne “I soliti ignoti” e così come sarà in moltissimi altri film del regista, da “L’armata brancaleone” ad “Amici miei”, anche qui i protagonisti sono dei cialtroni scansafatiche, buoni a nulla e poveracci: “troppo sprovveduti per fare i malviventi, troppo pigri e opportunisti per diventare persone rispettabili”. Eppure, nonostante ciò, sanno far trasparire una grande carica umana, che emerge in piccole scene secondarie, come quelle dell’incontro con la vedova del soldato Bordin, o quella, ripresa pari pari da Lussu, in cui incontrano un soldato tedesco intento a preparare un caffè, ma si rifiutano di ucciderlo.
Questa ricerca del vero, questa distruzione dell’epica a favore di un maggiore realismo, pare avvicinare la pellicola in questione al cinema neorealista. D’altra parte, anche la commedia all’italiana, come il neorealismo, nasce nella strada, dalla voglia di raccontare la realtà, la miseria e la sofferenza di un popolo.
Già prima de “I soliti ignoti” il cinema di Monicelli sembra tradire un grosso debito verso De Sica, Rossellini e gli altri maestri italiani del secondo dopoguerra: in “Guardie e ladri”, il confronto tra Fabrizi e Totò, alla fine del film, mette sullo stesso piano i due personaggi: nonostante l’inimicizia causata dal ruolo, entrambi cercano, pur in modi opposti, di portare a casa il pane: a fare da sfondo all’inseguimento e alla caccia all’uomo non rimane altro che la povertà di un popolo sull’orlo della disperazione.
Anche la commedia all’italiana, dunque è una forma di denuncia che il neorealismo perseguiva però con uno sguardo diverso.
Anche altri elementi formali nella pellicola, sembrano mirati a dare un tono maggiormente verista alla vicenda: anzitutto, l’abolizione della dizione italiana corretta e l’uso del dialetto come strumento narrativo che, unito al ricorso a proverbi, luoghi comuni, modi di dire, detti e altri elementi di saggezza popolare costituisce lo strumento espressivo più immediato di soldati che non erano altro che operai e contadini, poco istruiti e per lo più analfabeti.
Inoltre la Grande guerra fu il momento in cui veneti, siciliani, romani, lombardi, napoletani, etc. si riscoprirono italiani e l’utilizzo di dialetti diversi ha la funzione di sottolineare questo incontro. Nell’intervista rilasciata a Roberto Salinas, il Maestro dice a proposito del primo conflitto mondiale che “la Grande Guerra ha messo insieme gli italiani, hanno scoperto di essere su una penisola, di essere quello che sono. Prima nascevano e lavoravano: erano dei bruti, dei bruti. Messi per quattro anni in una buca, in un fosso, hanno cominciato a rendersi conto che ce n’erano altri come loro, che erano italiani”. L’incontro delle culture regionali emerge nei dialoghi del film, in cui si mischiano l’accento romano di Jacovacci, quello lombardo di Busacca, quello veneto di Boldrin e altri.
Un altro elemento da tener presente è la totale assenza di scene madri. Monicelli invita gli sceneggiatori a “scrivere solo scene figlie”, rivelando di non trovarsi a proprio agio con le manifestazioni drammatiche violente delle scene strappalacrime. I sentimenti è meglio svelarli attraverso piccoli gesti e reazioni secondarie, “smorzando con l’umorismo, che non sminuisce il dramma, ma ne fornisce un’altra prospettiva”.
Per il resto, la regia è completamente al servizio della storia e degli attori, la macchina da presa lavora in direzione di un occultamento dell’istanza narrante, della semplificazione stilistica, della riduzione all’essenziale dei movimenti della videocamera. L’obbiettivo finale è quello di far dimenticare allo spettatore la finzione, come in Rossellini e in De Sica. Anche là dove i movimenti di macchina sembrano ricercati, in realtà è l’asservimento alla vicenda a renderli necessari: all’inizio de “La Grande Guerra” un piano-sequenza inquadra la colonna di soldati che marciano in primo piano, mentre sullo sfondo avviene la fucilazione di un prigioniero. Il fine è quello di mostrare l’irrilevanza della morte nella quotidianità della guerra. L’orrore diventa normalità, la compassione svanisce, il soldato si disumanizza.
L’abolizione del lieto fine sancisce il distacco dell’opera dall’epica hollywoodiana e la consacra alla realtà del dramma. E tuttavia, se la pellicola può essere accostata per molti motivi alla corrente neorealista, per altrettanti motivi può esserne allontanata. “La Grande Guerra” rimane anzitutto una commedia, il cui scopo è divertire il pubblico: “Il successo di un mio lavoro dipende sempre dalla risposta del pubblico. Se faccio ridere o meno gli spettatori: questo è il mio metro di giudizio”. L’ironia imprime al film una forza eccezionale, dalla commozione scaturisce la risata e viceversa. Ma la grandezza della pellicola monicelliana sta nell’essere riuscito a far scaturire la risata da uno scenario lugubre e cupo come quello della vita di trincea.
Si può ridere di tutto?
Ma la vera scuola per gli autori della commedia all’italiana più che il neorealismo fu la commedia dell’arte, così come i protagonisti monicelliani, anche le maschere comiche di Arlecchino, Pulcinella e Pantalone non sono altro che archetipi di personaggi miserabili, dediti all’arte di arrangiarsi e condannati a essere oggetto di sopraffazioni. Il ridere delle miserie umane e l’inferire sul debole è una caratteristica decisiva di tali opere, come di molte altre della letteratura italiana, dal “Decamerone” di Boccaccio fino al “Marcovaldo” di Calvino, passando per i libretti dell’opera rossiniana, che la cultura europea e mondiale fatica a cogliere.
La commedia all’italiana è una commedia crudele, dove la risata, da ingenua “diventa spietata”: essa non è l’effetto della spensieratezza, ma al contrario, inserendosi tra i vizi e i disagi di un popolo, unisce una componente altamente drammatica a quella buffonesca. La serietà tragica del neorealismo viene messa in dubbio, ridicolizzata nella sua cupezza. E se la presenza del tragico diviene una caratteristica fondamentale della commedia all’italiana, l’irruzione della morte ne costituisce l’apice, la dimostrazione che si può ridere di tutto, persino di un dramma come la guerra di trincea. Ma la risata, ben lungi dal risultare una burla, una presa in giro di quei soldati che diedero la vita al fronte, diventa catarsi, messa in luce dell’assurdo. Come scrive Pascal Schembri: “Gli esseri umani, con le loro azioni da commedia più che da dramma, cercando di esorcizzare il disastro immanente ne mettono in luce l’assurdità. L’assurdo è la guerra, non la foto della Bertini o il tentativo d’imboscarsi o mangiare o portare a casa la pelle, non le piccole tensioni e gli stratagemmi quotidiani per cercare di sopravvivere in un mondo ostile, bensì l’inconsulto vagare di uomini che dovranno uccidere altri uomini senza comprenderne le ragioni, ammesso che ci siano”.
L’umorismo si insinua tra le discrepanze e le incoerenze della realtà per svelarne la mancanza di senso, di sistematicità: è una risata nicciana quella di Monicelli, uno sguardo distaccato volto a svelare il gioco senza regole della vita, a mostrare l’incoerenza tra valori e azioni, un’incoerenza all’interno della quale si rischia di rimanere schiacciati. La satira diventa, per usare le parole di Gore Vidal: “Il ghigno ipocrita e solenne della verità”.
In questo senso la comicità è, nella commedia, la misura giusta con cui raccontare il mondo: la commedia all’italiana rappresenterebbe, in questo senso, la maturità del neorealismo perché mette in luce uno sguardo più distaccato sulla realtà, capace più di tutti di metterne in luce l’insensatezza. Se la dichiarazione programmatica di Vittorio De Sica era quella di “rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane”, Monicelli al contrario “rintraccia il ridicolo nelle sitauzioni quotidiane”: il contrasto tra lo sguardo drammatico sul mondo e la risata amara della commedia generano la riflessione nello spettatore, capace di cogliere, in un gruppo di rapinatori improvvisati così come in un plotone militare, la fragilità ridicola dell’esistenza.
Di fronte alla contingenza che connota il nostro essere nel mondo e nella storia, uno dei maggiori filosofi americani contemporanei, Richard Rorty, raccomanda due atteggiamenti fondamentali: la solidarietà, volta a favorire la convivenza tra uomini, e l’ironia, che tiene a distanza ogni pretesa di assolutezza, sconfessa la sacralità dogmatica e ogni fondamentalismo e rende gli uomini capaci svelare il Re nudo.
In questa prospettiva, la commedia all’italiana rappresenterebbe un antidoto al nostro vivere quotidiano che, oggi più che mai, andrebbe riscoperto.
cast:
Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Romolo Valli, Folco Lulli
regia:
Mario Monicelli
distribuzione:
De Laurentiis - Domovideo, Ricordi Video, BMG Video, L'unità video
durata:
135'
produzione:
Dino De Laurentiis cinematografica
sceneggiatura:
Mario Monicelli, Age & Scarpelli, Luciano Vincenzoni
fotografia:
Leonida Barboni, Roberto Gerardi, Giuseppe Rotunno, Giuseppe Serrandi
scenografie:
Mario Garbuglia
montaggio:
Adriana Novelli
costumi:
Danilo Donati
musiche:
Nino Rota