Atto I: il luna park di Gore Verbinski
"La malvagità, mio caro signore, è lo spirito della critica,
e la critica è l'origine del progresso e della civiltà"
Da "La montagna incantata" di Thomas Mann
Uno stereotipicamente instancabile lavoratore in un ufficio deserto. Un quasi istantaneo attacco cardiaco. Due fluenti movimenti di macchina che prima allontanano la visione dal cadavere e poi la riavvicinano. Così inizia il decimo film di Gore Verbinski, opera radicalmente diversa dell'esordio di ormai un ventennio fa, la commedia "Un topolino sotto sfratto". Ma forse solo in apparenza. "A Cure for Wellness" (titolo la cui significativa e duplice ambiguità non è del tutto resa dal più esplicito corrispettivo italiano) segue il dittico western che probabilmente meglio rappresenta la natura altalenante del cinema del regista americano così come la sua perenne passione per la parodia e la decostruzione ironica, di cui è ragionevole ritenere "Rango" il miglior esempio.
L'opera qui presente si muove invece in una dimensione apparentemente opposta, immergendo ex abrupto lo spettatore in una New York costantemente nuvolosa e cupa, nel grigio mondo dell'alta finanza, nel quale ogni traccia di umorismo sembra assente e anche il discorso più parossistico viene condotto con imperscrutabile serietà. Per questa ragione risulta indubbiamente efficace il passaggio, intervallato da flashback, dalla metropoli alla sede della casa di cura in cui è stato inviato per convincere il suo direttore a tornare in America, una raffinata magione tardo-ottocentesca fra le Alpi svizzere, nella quale si praticano cure sperimentali. Ma dopo non molto risulta palese sia allo spettatore che all'algido protagonista (ottimamente) interpretato da Dane DeHaan che ciò che accomuna i grattacieli della Big Apple e un fiabesco castello elvetico non sono soltanto i vecchi e stressati businessmen che li popolano ma il medesimo "male oscuro", un malessere che pare connaturato all'essenza umana.
Così la detection lineare e chiaramente ispirata a certi legal drama degli ultimi decenni si muta lentamente in un'ossessiva ricerca, ricca di ripetizioni e e scarti improvvisi, così come la pellicola stessa che la contiene. Ed è difatti la portata narrativa del film ciò che salta subito all'occhio: una storia convenzionale dilatata per due ore e mezza eppure mai priva di momenti di distensione, mescolante senza timore elementi culturali delle più diverse matrici e soluzioni cinematografiche sempre nuove, trasformando "La cura dal benessere" nell'ennesimo film-luna park verbinskiano, una continua giustapposizione di elementi accumulati e ibridati con considerevole sprezzo del ridicolo.
Atto II: Zeitgeist
"Tutto è già visto, è sempre la stessa storia"
Dal film, il dottor Volmer
Ma d'altronde il regista chiarisce ciò fin da subito, riempiendo, a partire dalla suggestiva ripresa del treno ad altra velocità i cui vetri riflettono il panorama montuoso esterno e pure se stesso, il film (soprattutto nella parte iniziale) di specchi, riflessi, lenti, schermi, moltiplicando e distorcendo le immagini rappresentate e invitando così lo spettatore a guardare sempre con attenzione ciò che viene mostrato e a valutarne la polisemia. Allo stesso scopo fungono le numerose allusioni che costellano la pellicola, cinematografiche e non solo, culminando con alcune autocitazioni a precedenti film del regista, come gli inquietanti cerchi di luce e il look cadaverico di un antagonista (ma anche i long take lungo i labirintici corridoi che sembrano venire dall'esordio del '97). Riferimenti che non si limitano al cinematografico ma riguardano anche la scelta dei brani inseriti nella colonna sonora, la quale porta avanti per conto suo l'ideale di molteplicità e ibridazione che è il cuore della pellicola mescolando suoni elettronici e glitch che ricordano Disasterpeace, jump scare sonori ormai stereotipici del genere, canzoni popolari e brani sinfonici, e alcune soluzioni figurative, come quelle concernenti l'estetica della casa di cura.
Continuando su questo filone non si può non accennare al romanzo che Verbinski stesso ha esplicitamente ammesso essere il modello principale del film, ovvero "La montagna incantata" di Thomas Mann, ovviamente presente in bella vista in una scena. Anche non focalizzandosi sulle indubbie somiglianze di ambientazione e trama i punti in comune sono a dir poco copiosi, a partire dal borghese, impassibile ma in realtà tormentato Lockhart (nomen omen: "locked heart") e dall'ambigua natura della sua malattia che pare sempre di più esistenziale che fisica (ma in fin dei conti le due cose sono intrecciate, come nel romanzo). Ed è tramite il personaggio principale che "A Cure for Wellness" rivela di condividere con l'opera di Mann l'assunto di partenza: la ricostruzione, concentrandosi su un particolare minuscolo ma proprio per questo molto significante, di un determinato mondo e della sua società, preannunciandone la fine e la trasformazione in qualcosa di ignoto, di cui il giovane protagonista si fa concretizzazione. Il carattere ottocentesco del sanatorio e dell'umanità che lo popola crea pertanto un netto ed inquietante legame tra la civiltà contemporanea e quella decadente della belle époque, sposando e così rafforzando l'assunto astorico del Male di cui il film si fa portavoce.
Non si deve però dimenticare che il capolavoro del romanziere tedesco è in fin dei conti anche una parodia di certo Bildungsroman in precedenza anche da lui frequentato, favorendo un passaggio ulteriore nel livello di analisi del film di Verbinski. Difatti la seriosità e l'ingenuità con cui vengono trattate certe tematiche, il frequente ricorso all'iperbole e alcune svolte paradossali della narrazione non fanno che esplicitare la natura ironica de "La cura dal benessere", la quale riesce pertanto a renderne coesa l'enorme ricchezza di spunti incoerenti in virtù della già accennata essenza fortemente ludica del cinema dell'americano, conseguendo così un apice di quest'ultimo.
Atto III: contributi per una teoria della "cross-medialità ristretta"
"Solo perché una città vola non significa che non sia piena di idioti"
Da "Bioshock Infinite", Booker DeWitt
In secondo luogo l'uniformità dello stratificato film di Verbinski è determinata anche dalla scelta di sottolineare quanto più i caratteri archetipici della vicenda, la quale può essere ricondotta allo schema narrativo e dei personaggi della fiaba, come rende chiara l'ambientazione alpina, la cui innaturale bellezza viene enfatizzata dalla fotografia fortemente satura. E anche questa soluzione stilistica contribuisce in definitiva all'inserimento della pellicola in quell'immaginario, esacerbando i contrasti e l'irrealtà del mondo rappresentato (in cui ad un certo punto la materia onirica comincia a fondersi senza soluzione di continuità con la presunta realtà), in cui si alternano broker ed eroi, pazienti e principesse, CdA e mandanti, direttori di spa e antagonisti. "La cura dal benessere" d'altronde sposa anche il considerevole grado di ambiguità e perversione implicito in molte narrazioni popolari e ricorre proprio a questa maturità di sguardo per decostruire l'impostazione fiabesca nella parte finale, rendendo così palese la natura della seconda matrice fondamentale del film.
Si deve però ritornare al 2008, quando Gore Verbinski è il regista designato dalla Universal per l'adattamento cinematografico del videogioco "Bioshock": il carattere fin troppo estremo delle soluzioni pensate dal regista e il parziale insuccesso economico di un simile "blockbuster per adulti" spingono la produzione a ridurre considerevolmente il budget, causando il rallentamento del progetto e l'abbandono del regista. Non sono pochi gli elementi del capolavoro videoludico di Irrational Games a essere presenti in "A Cure for Wellness": i cupi sotterranei della casa di cura, le enormi vasche di sospensione, l'onnipresenza dell'acqua paiono venire direttamente dalla Rapture del gioco, così come l'enfasi per ciò che si cela "dentro i corpi", l'imperscrutabile protagonista e l'esibizione del distruttivo carattere dell'utopia (oltre al gore, ovviamente). Ma forse questo film deve ancora di più all'ultimo capitolo della trilogia di "Bioshock", "Infinite". Il ricorso agli archetipi proppiani e la radicale decostruzione di essi, la contrapposizione in primo luogo visiva fra l'abissale mondo sotterraneo e la lancinante bellezza di un'isola di benessere fra le nuvole, l'uniformità di questi in virtù della medesima malvagità umana e l'idealistica ossessione che ne è stata la causa prima e che avvicina in una certa misura protagonista e antagonista, mentre gli equilibri fra i personaggi cambiano (e le speciali damigelle in pericolo, chiamantisi ambedue "Anna", diventano eroine di se stesse e non solo) e il pessimismo si sparge sull'intera Storia (e umanità).
Ciò che resta di questo incoerente ammasso di citazioni e riferimenti, di intuizioni geniali e di trovate da b movie anni 70 è "La cura dal benessere" e ciò che impedisce alla pellicola di implodere è la barocca e molteplice regia del cineasta americano (qui anche produttore e soggettista), supportata dalla buona, nonostante certi plot holes, sceneggiatura di Justin Haythe, dalle cariche interpretazioni dei protagonisti e dall'ammirevole reparto tecnico, dimostranti la possibilità per il cinema più smaccatamente hollywoodiano di realizzare opere notevoli anche in un'epoca di totalizzante conformismo estetico. Se la transmedialità è, nelle sue variegate forme, il principale tratto delle grandi produzioni contemporanee e delle loro narrazioni potenzialmente infinite, il film qui presente la ripudia, preferendo inglobare all'interno della sua durata una quantità di spunti che potrebbe alimentare serie intere, così da farsi opera esemplare delle enormi potenzialità di "integrazione cross-mediale" che il cinema ha sempre posseduto.
"A Cure for Wellness" è costato 40 milioni di dollari, meno di un quinto del disneyano "The Lone Ranger", ed è stato accolto quasi ovunque da critiche negative e da incassi a dir poco scarsi per una pellicola del genere. Il pessimismo esibito dal film è quindi, forse, opportuno, constatando il carattere anodino di molto pubblico e di molta critica odierni. Ma d'altronde è lui stesso a farsi del beffe del suo, presunto, lieto fine, con l'inquietante, prolungato, ghigno del rinato Lockhart che conclude "La cura dal benessere".
cast:
Dane DeHaan, Mia Goth, Jason Isaacs, Adrian Schiller, Celia Imrie, Harry Groener
regia:
Gore Verbinski
titolo originale:
A Cure for Wellness
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
146'
produzione:
Blind Wink Productions, New Regency Productions, Studio Babelsberg, TSG Entertainment
sceneggiatura:
Justin Haythe
fotografia:
Bojan Bazzelli
scenografie:
Eve Stewart
montaggio:
Pete Beaudreau, Lance Pereira
costumi:
Jenny Beavan
musiche:
Benjamin Wallfisch